martedì 31 ottobre 2017

ORIGINE DEL PROTO-ORGANISMO




Post n. 32


L’universo ha avuto origine 13,6 miliardi di anni fa. Fu proprio il Big Bang, l’origine dell’universo, a porre le premesse per l’origine della vita, perché fu da quell’origine che si formarono gli elementi chimici.
Nei post già pubblicati abbiamo descritto l’origine degli elementi e l’origine, dalla materia inanimata, di sostanze fondamentali per l’origine della vita in particolare amminoacidi, formaldeide (HCHO) e acido cianidrico(HCN). Inoltre si è anche descritto ampiamente come l’argilla, secondo l’ipotesi di Bernal, abbia potuto selezionare, accumulare e proteggere queste sostanze fondamentali. Le argille hanno funzionato quindi da agente fisico regolatore e un ruolo fondamentale deve aver avuto la silice colloidale. Questa ipotesi spiega con un modello unico selezione, accumulo e formazione dei polipeptidi, e ci indica anche simultaneità e localizzazione. Infatti, non è di nessun interesse che uno di questi processi avvenga al polo nord, un altro all’equatore e l’altro al polo sud ed in condizioni chimico-fisiche completamente diverse. E ancora, non è di nessun interesse se ad un dato istante vengono selezionati gli amminoacidi, da questi dopo un mese vengono selezionati i levo e dopo un anno si ha la catalisi
Si pone allora la domanda: come è avvenuta la sintesi delle proteine sulla superficie della silice?
Mentre, come abbiamo già esposto (post n.26), in ambiente acquoso la reazione di formazione dei polipeptidi è impossibile, all’interno dei doppi strati elettrici si crea un microambiente non acquoso che favorisce la formazione dei polipeptidi. Inoltre all’interno di questi compartimenti entra in gioco una termodinamica a piccole scale, dove la formazione del polipeptide diventa un processo spontaneo.
Quindi gli amminoacidi Levo accumulati all'interno dei doppi strati elettrici della silice colloidale, all'interno di micro-cavità argillose, danno origine a catene polipeptidiche avvolte intorno alla silice colloidale.
Le particelle di silice colloidale hanno, però, un vita molto breve. Se una particella di silice colloidale, sulla cui superficie si è sintetizzato un polipeptide, incontra altre particelle di silice colloidale, si formerà silice amorfa. Le interazioni elettriche tra particelle di silice colloidale sono così forti da deformarsi reciprocamente.
Il polipeptide, non trovando più le interazioni elettriche originarie, si stacca dalla superficie e va in soluzione all'interno della cavità.
Poiché la silice colloidale era elicoidale necessariamente elicoidale sarà anche l’andamento dei polipeptidi. Queste strutture in soluzione sono termodinamicamente instabili e, per effetto dell’agitazione termica e degli urti con le molecole di acqua dovrebbero decomporsi in amminoacidi e cadere nello stato 2 di energia.

Ma come abbiamo visto nel post n. 18, la decomposizione dei polipeptidi in amminoacidi pur essendo termodinamicamente possibile è cineticamente impossibile. Le molecole di acqua non hanno, a temperatura ambiente l’energia sufficiente per spezzare tutti i legami del polipeptide. La decomposizione avviene ma a velocità molto bassa; una barriera energetica impedisce, quindi, una rapida decomposizione. I polipeptidi contengono però, al suo interno, cariche positive e cariche negative.     
 Ciascun polipeptide, prima di essere decomposto lentamente dall’acqua in singoli amminoacidi e precipitare nello Stato 2 come previsto dalla termodinamica, stabilisce    spontaneamente legami tra le cariche positive e negative che stabilizzano la struttura elicoidale. La formazione della struttura stabile e ordinata, denominata α-elica, libera energia che aumenta l’entropia universale. L’α-elica si trova quindi in una fossa energetica, Stato 1.
È probabile però che la composizione in amminoacidi delle α-eliche fosse diversa nelle diverse zone del pianeta. Come gli esperimenti alla Miller hanno dimostrato, alcuni amminoacidi si formano in condizioni particolari. Per esempio Metionina e Cisteina si formano solo se nella miscela dell’atmosfere primordiale fosse stato presente Idrogeno Solforato (H2S). Ma questo composto poteva essere presente solo in vicinanza dei vulcani. Altri amminoacidi hanno bisogno di alte temperature non raggiungibile con gli esperimenti di Miller (post n. 25). Dobbiamo quindi prendere in considerazione il fatto che probabilmente la composizione delle α-eliche, sulla superfice del pianeta, poteva variare in conseguenza di condizioni chimico-fisiche locali.
E allora, non si può non concludere che i polipeptidi, prodotti dalle ordinarie forze chimico-fisiche e da condizioni chimico-fisiche locali, sotto forma di α-elica, dovevano trovarsi, in epoca prebiotica, in grande abbondanza, su tutta la superficie del pianeta, in ogni cavità, in ogni poro, in ogni nicchia di masse argillose.                  
Ma come evidenzia Duranti Marcello in “Introduzione allo studio delle proteine” 2015: «Alcune α-eliche contengono porzioni del cilindro idrofobiche, ciò dà origine a interazioni tra amminoacidi idrofobici dando origine a strutture super secondarie che sono il primo passo verso le strutture terziarie delle proteine».
È probabile quindi che all'interno di masse argillose, da alcune α-eliche, si siano formati spontaneamente strutture super secondarie e successivamente, con ulteriori 
aggregazioni, strutture terziarie o globulari, cioè enzimi ad ampio spettro di azione. La formazione delle strutture globulari, provoca l’espulsione di molecole di acqua che aumenta il caos universale e quindi termodinamicamente più stabili. La struttura terziaria occuperà adesso lo Stato 1, con un’energia inferiore di quella di due o tre singole α-eliche e sarà quindi termodinamicamente più stabile.
Quanto esposto fino adesso, cioè l’origine dei polipeptidi, è corredato in linea di massima da dati sperimentali. Il cammino seguito dai polipeptidi verso l’origine del proto organismo, e quindi verso l’origine della vita, è per la scienza un vero mistero. Ora, impegnarsi nella ricerca di un tale cammino si rischia, come scrisse Schrödinger, di rimediare una brutta figura. Ma siccome non sono un accademico, io non rischio nessuna figuraccia e quindi ci provo.
Non avendo a disposizione dati sperimentali, per comprendere l’origine del proto-organismo, possiamo procedere, con uno sforzo di logica e di immaginazione, solo attraverso una narrazione credibile.
E allora, immaginiamo una nicchia, una micro cavità all’interno di una massa argillosa dove si sono accumulati qualche centinaio di α-eliche. Alcune α-eliche hanno dato origine a strutture super secondarie e successivamente a strutture terziarie. Le strutture terziarie o globulari contengono al loro interno gruppi idrofobi e alla loro superficie gruppi idrofili con cariche elettriche residue. Strutture terziarie e α-eliche erano, quindi, sicuramente circondate da cluster di acqua a formare un complesso sistema interattivo proteico.
Volendo fare una estrema sintesi, se immaginiamo che sulla superficie di un polipeptide si trovano i residui con cariche negative, essi saranno avvolti da una nuvola di molecole di acqua con Hδ+ orientato verso il negativo.

Nella zona di contatto tra i due aggregati di acqua, l’acqua stessa si disporrà in modo da minimizzare la repulsione elettrostatica.
Dentro la cavità, tutti i componenti del sistema interattivo dovevano, quindi, essere compresi all'interno di una macrostruttura ordinata, “quasi cristallina”, di acqua ed il sistema interattivo proteico assumeva l’aspetto di un gel. A questa macrostruttura possiamo estendere il concetto espresso da Peter W. Atkins in riferimento all’α-elica riportato nel Post n. 18: La disposizione 
ordinata di tutte le molecole di questa macrostruttura a gel è favorita rispetto ad un ammasso irregolare in quanto corrisponde alla situazione di maggior caos dell’universo. La macrostruttura è certamente dotata di un caos minore a causa della disposizione ordinata, ma il caos universale è maggiore a causa dell’energia che si libera al momento della formazione dei forti legami idrogeno.  


Come il sasso sulla collina che ad ogni temporale sprofonda sempre di più e diventa più stabile, cosi la macrostruttura è precipitata in una fossa energetica, rappresentata dallo Stato 1, e presenta una grande stabilità chimica.Questo sistema interattivo tra molecole proteiche opera, quindi, all’interno del secondo principio della termodinamica, dove è l’ordine a generare caos, la formazione di strutture complesse a produrre entropia.All’interno di questa struttura a gel i componenti del sistema comunicavano attraverso la forza elettromagnetica generata dai potenziali di superficie. Ora è evidente che se dall’ambiente esterno una o più molecole ricche di energia vengono a contatto con il gel della micro cavità, il polipeptide che si trova in prossimità inizia a destabilizzarsi cambiando forma. Tale cambiamento induce l’acqua che avvolge il polipeptide ad assumere un’altra disposizione. Tale nuova disposizione costringerà tutte le molecole di acqua del gel a riorientarsi elettricamente passando l’informazione a tutte le macromolecole del sistema che in misura grande o piccola saranno soggette a cambiamenti della loro forma. L’energia accumulata da un singolo polipeptide, viene scaricata e condivisa da tutto il complesso sistema interattivo. La nuova disposizione di tutte le altre macromolecole del gel manderà un retrosegnale che indicherà alla prima macromolecola se respingere o cooptare, se sintetizzare e cosa sintetizzare. Avranno successo solo i sistemi che riusciranno ad elaborare un sistema di comunicazione che minimizza gli errori. Il complesso sistema interattivo è diventato un’entità e presenta una rudimentale omeostasi, cioè la capacità di mantenere un equilibrio chimico uniforme più o meno costante in un ambiente mutevole. L'omeostasi definita così è però solo un'idea, un concetto.
Ma come possiamo rappresentarci fisicamente questa entità, e che cosa è veramente l’omeostasi?
La formazione delle molecole dagli atomi coinvolge sempre cariche elettriche. Intorno alla molecola di un composto dobbiamo immaginarci un campo elettromagnetico con un suo contenuto energetico specifico, diverso di qualsiasi altro composto.  Tale campo elettromagnetico conferisce le proprietà al composto. Per esempio, in una goccia o in un bicchiere d’acqua il campo elettromagnetico che avvolge tutte le molecole conferisce, a temperatura ambiente, la liquidità dell’acqua. Il campo elettromagnetico che avvolge le molecole di un amminoacido gli conferisce la solubilità in acqua. Quando decine di amminoacidi si legano a formare una proteina enzimatica il campo elettromagnetico intorno alla sua molecola non solo conferisce le proprietà intrinseche come la solubilità, ma conferisce anche una funzione: la funzione enzimatica, cioè l’enzima, attraverso il suo campo elettromagnetico, riconosce e scinde o lega molecole specifiche. Quando centinaia di enzimi, avvolti da cluster di acqua, danno origine ad un sistema interattivo proteico, precipitato in una fossa energetica e quindi molto stabile, il campo elettromagnetico intorno e interno a tale sistema, organizza e controlla il sistema stesso e lo identifica come entità. Ora, il campo elettromagnetico dell’entità proteica genera sicuramente proprietà e funzioni, che a livello macroscopico si esplicano come omeostasi. Ma se l'entità è sotto il controllo del suo campo elettromagnetico, possiamo definire l'omeostasi come: la risposta del campo elettromagnetico dell’entità rispetto a cambiamenti dell’ambiente esterno e del mezzo interno. L’omeostasi è un’emergenza associata ad un complesso sistema interattivo precipitato in una fossa energetica e quindi in equilibrio chimico. L’omeostasi, attraverso reazioni chimiche e cicli di retroazione, tende a preservare questo equilibrio. Poiché questa entità presenta omeostasi possiamo identificarla come un primitivo citoplasma proteico.
Emergenza la si deve intendere sempre nel significato dato da Ernst Mayr (opera citata): «La comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi complessi». «Essa non racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica». «Spesso nei sistemi complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si possono prevedere) neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
In realtà questo è vero anche per i sistemi semplici. L’acqua è costituita da Idrogeno e Ossigeno. Conoscendo le proprietà di questi due gas nessuno può prevedere le proprietà dell’acqua. E questo è vero per tutti i composti chimici. Solo che alle proprietà dei sistemi semplici e alle loro trasformazioni la chimica è riuscita ad associare delle leggi. Per contro ai sistemi complessi che conducono alla vita,che non presentano proprietà specifiche, noi associamo dei concetti.
L'omeostasi definita come la risposta del campo elettromagnetico dell'entità rispetto ai cambiamenti dell'ambiente esterno e del mezzo interno non è più un concetto, ma assume un significato chimico-fisico.
Il secondo passaggio fondamentale verso l’origine del proto-organismo è la formazione di corte molecole di RNA.
Ma come è avvenuta la formazione dell’RNA?
L’RNA e costituito da nucleotidi (post n. 31), questi ultimi sono formati dal legame tra un gruppo fosfato (H2PO4-) e un nucleoside.
 I costituenti dei nucleosidi sono: uno zucchero, il D-Ribosio, appartenente alla famiglia degli zuccheri (in basso nella figura), e una delle quattro basi azotate: Adenina (nella figura) e Guanina, appartenenti alla famiglia delle Purine; Uracile e Citosina appartenenti alla famiglia delle Pirimidine.
Si pone allora il problema di capire se questi costituenti erano presenti in epoca prebiotica.
In relazione alle basi azotate, nel 1961 Juan Orò uno dei chimici più impegnati in ricerche di chimica prebiotica, riuscì a sintetizzare l’Adenina scaldando a 70°C una elevata concentrazione di (HCN) acido cianidrico in presenza di ammoniaca (NH3). In questo esperimento si ottennero parecchie sostanze organiche e tra queste adenina. In seguito, Orò riuscì a sintetizzare anche la guanina. In merito a questi esperimenti C. Ponnamperuma in “Origine della vita”, 1984 commenta: «[…] le concentrazioni usate da Orò erano di gran lunga troppo alte per corrispondere a una situazione prebiotica. Se le condizioni sperimentali fossero state davvero simili a quelle prebiotiche, se, per esempio, si fossero usate concentrazioni più basse, allora queste reazioni sarebbero di grande aiuto alla comprensione dell'origine delle purine nelle condizioni presenti nella fase prebiotica della Terra».
Purtroppo dopo questi esperimenti e per oltre 50 anni non risultano esperimenti significativi.
Come esposto nel post n.7, il motivo è probabilmente da ricercare nella supponenza dei sostenitori del “Mondo a RNA” che hanno trasformato un’ipotesi in un modello confermato, considerando superflua la ricerca sui costituenti degli acidi nucleici.
Dopo questo lungo periodo sembrava che la ricerca sull’origine dei costituenti degli acidi nucleici fosse caduta nell’oblio, quando due scienziati italiani Ernesto Di Mauro e Raffaele Saladino riaprono la partita.
I loro esperimenti descritti nel saggio “Dal big bang alla cellula madre l‘origine della vita” 2016, sono di notevole interesse. Innanzitutto perché, invece di utilizzare HCN (Acido cianidrico) che è un gas, hanno ottenuto le basi azotate utilizzando la HCONH2 (Formammide) che ha un punto di ebollizione oltre i 200°C, e che era sicuramente presente in epoca prebiotica perché prodotta dalla reazione tra HCN e H2O. Inoltre tali esperimenti avvengono utilizzando argilla o minerali sicuramente presenti in epoca prebiotica. Questi esperimenti rientrano a pieno titolo nella teoria di Bernal. Egli, infatti, aveva ipotizzato che l’argilla avrebbe potuto funzionare da principio regolatore per selezionare, accumulare, proteggere e catalizzare le sostanze fondamentali per l’origine della vita. Ci troviamo così ad avere, in epoca prebiotica, le basi necessarie per l’acido nucleico proprio all’interno di masse argillose, dove ha origine il primitivo citoplasma proteico.
In relazione al Ribosio è da evidenziare che la sua molecola, come le molecole degli amminoacidi, presenta una forma Destro e Levo, una l’immagine speculare dell’altra, ma solo il Destro viene utilizzato negli acidi nucleici. Il Ribosio, come l’Arabinosio, lo Xilosio e il Lisosio, è un pentamero della formaldeide (HCHO), nel senso che risulta formato da 5 molecole di formaldeide ma è, in soluzione acquosa, un composto instabile. Intorno al 1880 A. Butlerov trattando la formaldeide in ambiente fortemente basico, riuscì a sintetizzare il Ribosio, reazione nota come reazione del formoso. Questa reazione non opera in condizioni prebiotiche, inoltre assieme al Ribosio si sono forma una miscela di altri zuccheri, compresi gli altri tre pentameri, che avrebbero intralciato la formazione dell’acido nucleico (post n.10). In mancanza di ricerche valide, nel 1994 L. Orgel in Le scienze, “L’origine della vita sulla terra” scriveva: «Innanzitutto, in mancanza di enzimi, è problematico sintetizzare ribosio in quantità adeguate e con un sufficiente grado di purezza».
Nel 2008 in “Alle origini della vita” Christian De Duve prende in considerazione le ricerche di Prieur (2001) e di Ricardo (2004) i quali, utilizzando i borati sono riusciti a stabilizzare il Ribosio e limitare a formazione di altri zuccheri. Ricardo, in “Planetary Organic Chemistry and the Origins of Biomolecules” 2015, descrive nel dettaglio il meccanismo delle razioni e la funzione del boro ma riporta anche le critiche di Hazen che definisce il boro un elemento “esotico” per la chimica prebiotica. Christian De Duve riporta anche un lavoro di Ricardo et al. 2004 i quali hanno ottenuto i quattro pentosi (sia Destro che Levo) facendo reagire gliceraldeide con glicolaldeide. Anche Di Mauro e Saladino richiamano i lavori di Pieur e Ricardo ma aggiungono che simili risultati furono ottenuti anche impiegando Zirconati. Ora, il fatto è che i zirconati sono tutt’altro che “esotici”, essi, anche se in piccole quantità, si trovano distribuiti su tutta la superfice del pianeta e principalmente in rocce sedimentarie e metamorfiche. L’argilla, in relazione alla composizione, si distingue in caolinite, beidellite e montmorillonite. Nell’argilla beidellite è stata trovata una quantità di zirconati superiore alla media del pianeta. E così ci ritroviamo ancora una volta all’interno della teoria di Bernal. Quindi, in epoca prebiotica, oltre ad un primitivo citoplasma proteico contenute nelle cavità dell’argilla, è probabile che decine di basi azotate e decine di zuccheri, sia Destro che Levo, si trovassero diffuse all’interno di masse argillose. Da questa miscela di basi azotate e zuccheri, diffuse nelle masse argillose, soltanto quattro basi, Adenina, Citosina, Guanina e Uracile e solo un zucchero il D-Ribosio sono stati cooptati all’interno del rudimentale citoplasma proteico.
Ma perché proprio questi e non gli altri, quale costrizione ha imposto tale selezione.
A selezionare questi composti deve essere stata l’omeostasi del primitivo citoplasma proteico.
L’omeostasi deputata a mantenere l’equilibrio chimico permette, all'interno del citoplasma proteico, solo la diffusione di sostanze che mantengono tale equilibrio. 
Come abbiamo detto l'omeostasi, è la risposta del campo elettromagnetico dell'entità rispetto ai cambiamenti dell'ambiente esterno e del mezzo interno. E allora, proviamo a dare una rappresentazione fisica dell'omeostasi.
Immaginiamo di avere un bicchiere di acqua e di aggiungere zucchero. Possiamo semplicisticamente dire che il campo elettromagnetico intorno alle molecole di zucchero è compatibile con quello delle molecole di acqua e quindi lo zucchero si scioglie in acqua. Se invece nel bicchiere mettiamo una goccia di olio, il campo elettromagnetico intorno alla molecole dell’olio non è compatibile con quello dell’acqua, l’olio non si miscela con l’acqua e si raccoglie alla sua superficie. Ora, immaginiamoci come poteva essere il campo elettromagnetico generato, intorno alla nostra entità proteica, da centinaia di α-eliche. Queste α-eliche erano costituite da L-amminoacidi ed avevano tutte un andamento destrorso. Il campo elettromagnetico intorno all’entità proteica doveva riflettere l’andamento elicoidale destrorso delle α-eliche e quindi doveva essere necessariamente destrorso. Se l’entità proteica fosse stata costituita da α-eliche sinistrorse, il campo elettrico sarebbe stato sinistrorso cioè l’immagine speculare del campo elettrico dell’entità destrorsa. Ora, poiché le molecole di D-Ribosio e di L-Ribosio sono una l’immagine dell’altra, anche il loro campo elettrico deve essere uno l’immagine speculare dell’altro, cioè destrorso e sinistrorso. E allora, quando in epoca prebiotica molecole di D-Ribosio e di L-Ribosio cercarono di diffondere all’interno della cavità dove si trovava un’entità di α-eliche destrorse, l'omeostasi ha cooptato il D-Ribosio destrorso perché complementare al campo elettrico dell’entità mentre la sua immagine speculare, L-Ribosio sinistrorso, venne respinto.
Oltre al Ribosio nelle masse argillose erano presente sicuramente altri zuccheri simili al Ribosio, anch’essi Destro e Levo, come per esempio l’Arabinosio. Il D-Arabinosio al pari del D-Ribosio era sicuramente complementare al campo elettrico dell’entità proteica. Ma perché è stato scelto il D-Ribosio e non il D-Arabinosio.  

Come si vede dall’immagine la molecola di D-Arabinosio ha, rispetto al D-Ribosio un solo un gruppo –OH a sinistra invece che a destra. Per questa piccola differenza l’Arabinosio ha un punto di fusione di 157°C mentre il Ribosio ha un punto di fusione di 90°C. Ma i punti di fusione sono determinati dalla interazione delle cariche elettriche delle molecole, cioè in definitiva del campo elettromagnetico intorno alle molecole. Quindi i campi elettromagnetici delle molecole di D-Ribosio e di D-Arabinosio sono diversi. Ma come abbiamo già detto, al campo elettromagnetico specifico di ogni molecola di qualsiasi composto è associato un contenuto energetico specifico. Le molecole di D-Ribosio e D-Arabinosio hanno perciò contenuti energetici diversi. Allora, se il campo elettromagnetico intorno all'entità proteica ha scelto il D-Ribosio vuol dire che il contenuto energetico delle sue molecole mantengono l’equilibrio dell’entità proteica, mentre le molecole di D-Arabinosio lo avrebbero destabilizzato. L'omeostasi dell’entità proteica riconosce quindi differenze di campo elettromagnetico e di livello energetico delle molecole. Questo principio deve aver funzionato anche nella scelta delle basi azotate. Solo i campi elettromagnetici associati alle molecole di Adenina, Citosina, Guanina, Uracile sono compatibili con il campo elettromagnetico intorno e interno all'entità proteica, e i loro livelli energetici stabilizzano l’equilibrio termodinamico. In definitiva, l’omeostasi coopta le molecole dell’ambiente in base alla compatibilità del campo elettromagnetico e al contenuto energetico.
Semplicisticamente possiamo concludere che Adenina, Citosina, Guanina, Uracile e D-Ribosio solo solubili nell'entità proteica mentre non lo sono tutte le altre basi azotate e zuccheri.
L’entità proteica che presenta omeostasi l’abbiamo identificato come primitivo citoplasma proteico.
Ma il rudimentale citoplasma proteico altro non è che un insieme di enzimi. All’interno dell’entità, questi enzimi utilizzando il poco fosfato a disposizione nella soluzione, legano nel modo giusto il D-Ribosio con una delle basi e con fosfato dando origine ai nucleotidi. Atri enzimi legano nel modo giusto tre nucleotidi dando origine ai trinucleotidi. Come abbiamo ipotizzato nel post n. 27, in epoca prebiotica doveva esistere una interazione diretta tra un trinucleotide e un amminoacido specifico, un sistema chimico-fisico di riconoscimento e complementarietà. Ora, quando i trinucleotidi diffondono all’interno dell’entità e incontrano un’α-elica ogni trinucleotide si sovrappone allo specifico amminoacido dell’α-elica. Nel momento in cui ciascun amminoacido dell’α-elica è sovrapposto dallo specifico trinucleotide sarà l’azione enzimatica dell’α-elica a legare i trinucleotidi dando origine all’RNA, l’acido ribonucleico. Poiché l’RNA è stato sintetizzato da un enzima elicoidale, l’α-elica, esso risulta avere una struttura elicoidale. Se nella cavità erano presenti un centinaio di α-eliche diverse, esse daranno origine a un centinaio di RNA diversi. Gli RNA si sostituiscono alla silice e con gli amminoacidi in soluzione potranno sintetizzare gli enzimi che per varie cause venivano decomposti. Per utilizzare la metafora di Cairns-Smith: l’armatura, la silice, ha generato un arco, l’α-elica, che a sua volta ha generato un’armatura, RNA, che si sostituisce definitivamente alla prima.  La sintesi dei nucleotidi (Ribosio + base azotata +gruppo fosfato), la sintesi dei trinucleotidi e la sintesi dell’RNA avvengono tutte nel microambiente non acquoso della superfice degli enzimi. Queste condizioni permettono all’enzima una reattività straordinaria e diversa dalle reazioni in ambiente acquoso. Inoltre in tutte queste reazioni di sintesi si liberano molecole di acqua che andranno ad aumentare il caos universale. Si crea ancora ordine aumentando l’entropia: Caos dall’ordine.
Con la comparsa degli RNA l’entità si amplia dando origine ad un citoplasma contenente un sistema interattivo Acidi nucleici-Enzimi che sprofonda ancora di più nella fossa energetica. L'omeostasi mantiene l'equilibrio chimico attraverso il campo elettromagnetico intorno e interno all'entità
La nuova entità, cioè il citoplasma Acidi nucleici-enzimi, è il proto-organismo.
In conclusione, il secondo principio della termodinamica non potendo seguire la via del massimo caos rappresentata dalla fossa energetica dello stato 2, segue il cammino del caos possibile e scava una fossa energetica parallela rappresentata dallo stato 1. 
 Lu Lungo questo cammino, attraverso salti successivi l’ordine genera caos fino a dare origine al proto-organismo. Si è sempre considerato il proto-organismo come un sistema lontano dall’equilibrio termodinamico descritto dallo stato 2. In realtà il proto-organismo è un sistema lontano dal caos massimo ma è in equilibrio con il caos possibile e quindi sotto il controllo del 2° principio della     termodinamica.
E allora, questo è lo scenario che ci troviamo di fronte.
In miliardi e miliardi di cavità, nicchie, anfratti e spazi inter-cristallini di un imprecisato ma enorme numero di masse argillose si sintetizzano un numero infinito di polipeptidi che danno origine ad un primitivo citoplasma proteico. Molecole di basi azotate e di D-Ribosio contenute nelle masse argillose che vengono cooptate all’interno del citoplasma proteico. Polipeptidi elicoidali che sintetizzano l’acido nucleico. L’interazione acidi nucleici-enzimi dà origine ad un numero sterminato di proto-organismi.

                                                                                  Giovanni Occhipinti

Prossimo articolo: Dal proto-organismo alla cellula ( fine Marzo) 


lunedì 1 maggio 2017

ORIGINE DELLA VITA: 1) Il Protoorganismo




Post.n.31

La ricerca sull'origine della vita, dopo secoli di discussioni teologiche e filosofiche, ha avuto inizio soltanto nella prima metà del secolo scorso. Oggi, dopo oltre mezzo secolo di ricerche, gli scienziati hanno una sola certezza: la vita ha avuto origine dalla materia inanimata.
In tutti gli articoli pubblicati nel Blog abbiamo affrontato tutte le problematiche che investono l’origine della vita. È giunto il momento di fare una sintesi e cercare di capire in che modo la vita può aver avuto origine dalla materia inanimata. Verranno richiamati brevemente affermazioni e concetti di tali articoli, sui quali verrà posto, tra parentesi, il numero del post per chi volesse maggiori chiarimenti.
Se la domanda è: come ha avuto origine la vita? Allora partiamo dalla vita per capire come essa possa aver avuto origine.
Abbiamo definito la cellula batterica l’entità minima vitale, il primo stadio della vita (post n. 30).
Ma tutti gli scienziati convengono che la vita non può avere avuto inizio direttamente con la cellula. Anche le cellule batteriche, pur nelle loro semplicità, rispetto alle cellule degli organismi superiori, sono comunque di enorme complessità. Si ritiene quindi che tra il periodo della chimica, cioè la fase in cui si accumularono e interagirono le sostanze fondamentali della vita, e la comparsa della cellula, sia esistito qualcosa di intermedio che gli scienziati chiamano: proto-organismo, o proto-cellula o fase pre-cellulare. Qui viene utilizzato il termine, proto-organismo, già utilizzato da Mario Ageno agli inizi degli anni ’80, e che sembra dare al meglio l’idea di questo intermedio.
Ora, il problema è che tutti gli scienziati parlano di proto-organismo ma nessuno sa cos'è.
Si pone quindi il problema, innanzitutto di definire il proto-organismo, capire come esso può aver avuto origine dalla materia inanimata e, successivamente, come ha fatto a trasformarsi in cellula.
Prima di proseguire sono necessarie della precisazioni.
In primo luogo, per proto-organismo non si intende un’entità unica, solitaria, comparsa sulla terra e da cui emerse una sola ed unica cellula. Per proto-organismo si intende miliardi di miliardi di entità, chimicamente abbastanza simili, diffusi su tutta la superficie del pianeta. Forse per alcuni ricercatori non è così, in ogni modo, cosi esso è inteso in questa trattazione.
In secondo luogo, il proto-organismo fu un’entità dinamica, all'interno del quale avvenne un’evoluzione chimica, cioè processi che hanno portato miliardi di loro a raggiungere lo stato cellulare. Altri proto-organismi, forse la maggior parte, imboccata la strada sbagliata si sono dispersi nell'ambiente.
Infine, noi non conosciamo i processi avvenuti all'interno del proto-organismo, possiamo fare solo delle ipotesi. Ma per poter fare delle ipotesi dobbiamo cercare individuare le basi chimiche del proto-organismo, cioè le molecole che possono aver dato inizio a questi processi.
Qui sorge un altro problema, gli scienziati non solo non hanno una definizione di proto-organismo, ma non sono nemmeno d’accordo su come iniziare per definire il proto-organismo, cioè come individuare le basi chimiche del proto-organismo.
Infatti, per alcuni scienziati per prima apparvero dei compartimenti, vescicole di acidi grassi, membrane tipo liposomi, all'interno dei quali si accumularono proteine e acidi nucleici, capaci rispettivamente di metabolismo e replicazione.  
it.wikipedia.org
 
 Pier Luigi Luisi è un autorevole esponente dei “compartimentalisti” e come egli stesso afferma in “Sull'origine della vita e della biodiversità” 2013, i compartimenti proto-cellulari sono imprescindibili per l’origine della vita.
 Per molti altri scienziati tutto ebbe inizio attraverso processi unicamente metabolici all'interno di membrane polimeriche (prima il metabolismo), mentre per altri apparvero per prima molecole unicamente replicative (prima la replicazione, Mondo a RNA).
Ma in merito a queste teorie Luisi scrive (opera citata): «Tutte condividono un problema principale: ognuna di queste teorie deve partire da una serie di assunzioni più o meno arbitrarie». In particolare, il mondo comportamentalista deve assumere che le macromolecole (acidi nucleici ed enzimi) fossero già presenti nell'ambiente prebiotico, l’approccio metabolico parte invece dall'assunzione che fossero già presenti gli enzimi, il mondo a RNA parte dall'assunzione che fosse a disposizione un RNA autoreplicante.
Come abbiamo più volte sottolineato, a fare uso di assunzione arbitrarie difficilmente si fanno passi avanti e così, anche in questo caso, della definizione di proto-organismo non c’è nessuna traccia.
Allora, per arrivare ad una sostenibile definizione di proto organismo, invece di partire da assunzioni arbitrarie dobbiamo partire da dati certi e scenari possibili in epoca prebiotica.
Se la cellula batterica è l’entità minima vitale, per identificare le basi chimiche del proto-organismo, possiamo partire ponendoci una domanda?
Quali e quante macromolecole ha bisogno una cellula per poter essere considerata vivente?
La cellula batterica è l’entità minima vitale. Le cellule batteriche, però, non hanno tutte lo stesso numero di macromolecole. Il DNA dell’Escherichia coli, per esempio, possiede circa 3000 geni e quindi altrettante possibili proteine, mentre Pelagibacter Ubique ne contiene circa 1300. Il più piccolo batterio vivente a tutt'oggi noto è un parassita obbligato, il Micoplasma Genitalium che contiene circa 500 geni e altrettante possibili proteine. La maggior parte degli scienziati, siano essi comportamentalisti, sostenitori del “Mondo a RNA” o del metabolismo, sono però convinti che una cellula possa vivere con un numero di geni inferiore, e concordano con un genoma minimale di circa 200 geni e altrettante proteine.
Se questo potrebbe essere stato il contenuto della cellula minimale, se il proto-organismo fu qualcosa di intermedio tra il periodo della chimica e la comparsa della cellula, in che cosa poteva differenziarsi il proto-organismo dalla cellula minimale?
Riprendiamo allora la definizione di vita: metabolismo, riproduzione, evoluzione.
Quale di queste tre proprietà apparteneva già al proto-organismo?
L’evoluzione è una caratteristica degli organismi viventi. Quindi per avere evoluzione dobbiamo avere almeno l’entità minima vitale, cioè la cellula. Noi, però, non abbiamo la cellula, ma il proto-organismo, e poiché esso non è ancora un organismo vivente l’evoluzione era assente. Il proto organismo doveva, quindi, essere costituito da metabolismo e riproduzione. La questione è che l’evoluzione discende dalla riproduzione, se non c’è evoluzione è perché non c’è riproduzione e quindi il proto-organismo non poteva contenere la riproduzione, ma doveva contenere solo il metabolismo.
Ma si possono separare metabolismo e riproduzione in un proto-organismo?
Secondo Mario Ageno, “Lezioni di Biofisica 3” 1984, un sistema composto di solo metabolismo non avrebbe alcuna importanza dal punto di vista biologico perché ben presto si sarebbe dissipato nell'ambiente senza lasciare né eredita né traccia. Secondo Ageno la capacità di riprodursi è una caratteristica irrinunciabile per qualunque sistema. D’altra parte, come ha spiegato Dorothy Crawford a proposito dei Virus in ”Il nemico invisibile” 2002, non può esistere riproduzione senza metabolismo. I Virus si riproducono sfruttando il metabolismo della cellula ospite e se non trovano una cellula ospite si decompongono.
Quindi metabolismo e riproduzione non sarebbero separabili, ma il proto-organismo non può contenere la riproduzione. Come usciamo da questa dilemma?
Il problema, come spesso accade, va ricondotto ad una questione di terminologia. Il termine riproduzione contiene il termine replicazione, cioè una cellula prima di riprodursi deve replicare il proprio genoma. Gli organismi viventi si riproducono, le molecole si replicano. Il proto-organismo non è un organismo vivente e quindi non si riproduce. Si usa spesso il termine riproduzione in senso generale, anche per i Virus. In realtà, i Virus all'interno della cellula non si riproducono ma si replicano, cioè sfruttano l’apparato metabolico per replicare il proprio Genoma e aumentare di numero fino a soffocare la cellula. Quindi il proto-organismo non poteva essere un sistema metabolico-riproduttivo perché la riproduzione è una caratteristica della vita ma doveva essere, verosimilmente, un sistema metabolico-replicativo. In altre parole il proto-organismo per sopravvivere aveva solo la necessità, attraverso un metabolismo rudimentale, di replicare le molecole danneggiate.
Allora, se il proto-organismo fu un sistema metabolico-replicativo, necessitava ancora di un genoma di 200 geni, necessari per la cellula minimale?
In sintesi si tratta di ricercare quali caratteristiche degli attuali organismi viventi possono essere state, nel proto-organismo, diverse o più semplici di quelle attuali. Poiché su questi argomenti esistono opinioni diverse, tra diverse opzioni, facendo seguito al rasoio di Occam, dobbiamo scegliere quella più semplice e credibile. Ricordiamo che William Ockham era un frate francescano del 14° secolo, a lui si fa risalire il principio del rasoio di Occam: bisogna sempre partire da supposizioni semplici, ovvie e aggiungere successivamente la complessità se necessario. Certamente non è un principio universale ma nel nostro caso può esserci utile.
1) Tutti i ricercatori ritengono che il proto-organismo abbia avuto origine all'interno di compartimenti chiusi.
Come abbiamo già esposto, alcuni scienziati ritengono che questi compartimenti fossero membrane polimeriche. Essi però partono dall'assunto che fossero già presente, nell'ambiente, le macromolecole fondamentali (acidi nucleici e proteine) e non spiegano, quindi, come queste molecole si siano formate. Inoltre non è dato conoscere come queste molecole si siano accumulate, selettivamente, all'interno delle membrane.
Secondo J. B. Bernal (post n.8) i compartimenti furono, invece, cavità e spazi inter-cristalline all'interno di granuli di argilla. In questi compartimenti, in costante contatto con l’ambiente esterno, si potevano accumulare e interagire le molecole necessarie all'origine del proto-organismo. Inoltre, si poteva evitare la dispersione delle macromolecole nell'ambiente esterno o la loro demolizione
 
 per l’azione dei raggi ultravioletti. Si tenga presente che la possibilità di accumulo di molecole semplici e sintesi polimeriche, all'interno delle argille, è stata ampiamente dimostrata in varie ricerche.

Questa ipotesi sui compartimenti, condivisa da parecchi ricercatori, sembra più credibile perché non parte da nessun assunto.
Se il proto-organismo ebbe origine all'interno di cavità argillose non era necessaria, in quella prima fase, la membrana proto-cellulare. Se quest’ultimo elemento era assente, erano assenti anche i geni e le proteine necessarie alla sua replicazione, il genoma doveva, quindi, ridursi di alcune di unità.
2) In tutti gli organismi viventi un acido nucleico, il DNA, ha la funzione di archivio dell’informazione genetica. Porzioni di DNA, i geni, vengono trascritti in acido nucleico messaggero, mRNA. È l’mRNA che traduce l’informazione in proteine.
Ma il DNA è sempre esistito? La quasi totalità degli scienziati, è oggi d’accordo su quanto scrisse Mario Ageno, già all'inizio degli anni 80, nel capitolo “Dai precursori al proto-organismo” (opera citata). Egli ha fatto un’analisi approfondita sull'argomento e scrive: «È concepibile che, all'inizio, la trascrizione non esistesse. Un unico acido nucleico ad elica singola poteva contemporaneamente svolgere la funzione di archivio dell’informazione chimica ed intervenire attivamente nelle operazioni di sintesi». Se il DNA era assente erano assenti anche il gruppo delle proteine necessarie alla sua replicazione. Il genoma del proto-organismo si semplifica ancora, almeno di una decina di unità.
3)  La sintesi delle proteine (post n. 27) è un processo abbastanza complesso. Essa necessita di un RNA messaggero, di RNA di trasporto (adattatori), un Ribosoma, di enzimi per la sintesi del polipeptide proteico. Un simile sistema poteva essere presente nel proto-organismo?
 Scrive ancora Ageno: «È concepibile, anzi praticamente certo, che il ribosoma, se esisteva, fosse inizialmente diverso da ora, riducendosi alla sola componente nucleica. Ma è anche possibile che all'inizio il ribosoma non esistesse e la sintesi avvenisse per interazione tra l’RNA e gli adattatori caricati coi relativi amminoacidi. È invece probabile che gli adattatori, eventualmente più semplici di quelli attuali, esistessero fin dall'inizio. In caso contrario infatti si dovrebbero postulare interazioni dirette specifiche tra triplette di nucleotidi ed amminoacidi, interazioni che non sembrano esistere almeno con una intensità e specificità sufficiente per influire in modo determinante sull'allineamento degli amminoacidi nella proteina […]». Ora, poiché qui si ritiene che sia esistita, in epoca prebiotica, un interazione diretta e specifica tra il tri-nucleotide e l’amminoacido (post n. 27), anche gli adattatori, i tRNA, erano assenti.
Il ribosoma degli attuali batteri contiene circa 50 proteine. I tRNA necessitano di almeno 20 enzimi specifici per legare ciascun amminoacido ad ogni tRNA. Una volta allineati i tRNA sono necessari diversi altri enzimi per legare gli amminoacidi nel polipeptide. Se tutto questo sistema complesso non esisteva, se anche i tRNA erano assenti, erano assenti anche le proteine, e quindi i geni, necessarie alla loro sintesi, il genoma del proto-organismo si riduce notevolmente.
In definitiva, un calcolo approssimato dei punti sopra esposti porta a concludere che proto-organismo poteva iniziare la propria esistenza con un genoma di circa 100 geni e altrettante proteine.
Partiamo allora dall’ipotesi che il porto-organismo contenesse un genoma di RNA di circa 100 geni.
Come abbiamo già esposto (post n. 29), intorno al 1970 è stata avanzata l’ipotesi che le proteine fossero costituite da domini, cioè una sequenza di amminoacidi che si conserva nel corso dell’evoluzione. Nel 1974 Rossman ha individuato un dominio di circa 70 amminoacidi presente in molti enzimi e propose che tale dominio fosse addirittura di origine prebiotica (Russell F. Doolittle “Le Proteine” Le Scienze 1985). Ma oggi molti ritengono che i domini, in epoca prebiotica, fossero più piccoli e costituiti principalmente da ꭤ-eliche di circa 20 amminoacidi (Mike Williamson,” Come funzionano le proteine” 2013).
Ora, ogni gene una proteina, se i 100 geni codificavano per 100 proteine mediamente di 20 amminoacidi, quali erano le dimensioni del genoma del proto-organismo?
Secondo il codice genetico tre triplette (cioè tre nucleotidi) codificano un amminoacido (3:1), quindi per specificare 100 proteine di 20 amminoacidi cioè 2000 amminoacidi è necessario un genoma composto da 6000 nucleotidi.  Riprendiamo come esempio l’immagine di uno dei quattro nucleotidi: l’Adenosin-5-fosfato
https://it.wikipedia.org/wiki/Adenosina_monofosfato

Quindi per dare origine ad un genoma di 100 geni avrebbero dovuto legarsi, spontaneamente e nel modo giusto 6000 di questi nucleotidi. Nessun chimico e nessun biologo crede alla possibilità della formazione, in epoca prebiotica, di una così grande molecola. Possiamo sicuramente concludere che un simile genoma, inizialmente, non esisteva. È molto probabile invece che quando il proto-organismo comincia a muovere i primi passi, al suo interno invece di un unico genoma di 100 geni erano presenti 100 geni indipendenti, separati uno dall'altro, ciascuno codificante per una proteina.
Pertanto possiamo concludere come segue:
Il proto-organismo ebbe origine all'interno di cavità argillose, dove si accumularono e interagirono le sostanze fondamentali per l’origine della vita. Esso era in costante contatto con l’ambiente per l’approvvigionamento delle sostanze necessarie alla sua evoluzione chimica. Non esisteva ancora né il DNA come archivio dell’informazione genetica, né esisteva un unico genoma ad RNA a svolgere la doppia funzione di archivio dell’informazione genetica e sintesi delle proteine e non erano presenti i tRNA per il trasporto degli amminoacidi.
Il proto-organismo doveva risultare costituito da singoli geni di RNA, circa 100, inizialmente completamente indipendenti e di circa 100 proteine. All'interno del proto-organismo dovevano essere presenti i costituenti delle proteine e dell’RNA, e piccole molecole organiche provenienti dall'ambiente esterno. La sintesi degli RNA e la sintesi delle proteine avveniva per interazione diretta rispettivamente tra amminoacido di una proteina e nucleotidi e tra nucleotidi dell’RNA e amminoacidi (post n. 29).
Definito il proto-organismo si pongono due domande:
Come ha avuto origine il proto-organismo dalla materia inanimata?
Come è avvenuto il passaggio dal proto-organismo alla cellula?

                                                                                              Giovanni Occhipinti


Prossimo articolo: Origine della vita, dagli elementi al proto-organismo (fine Luglio)
Troppo ottimista, pensavo di farcela prima delle vacanze, la pubblicazione è rinviata fine Ottobre


giovedì 2 febbraio 2017

MA LA VITA, CHE COS'È?



Post n. 30


Prima d affrontare l'argomento, forse, vale la pena fare una brevissima premessa.
La definizione del concetto di vita e di vivente è naturalmente una impresa molto ardua e sono sempre possibili imprecisioni e fraintendimenti. A volte, nell'intento -  magari lodevole di essere precisi e rigorosi -  si finisce per correre il rischio di essere dogmatici e di cadere in conclusioni paradossali, quali quelli che portano a dubitare della qualifica di vivente del mulo soltanto perché è sterile e non può riprodursi.
Quelle che seguono sono dunque considerazione che hanno un fine prevalentemente terminologico (quello di evitare che nella discussione si faccia uso di termini uguali, attribuendo loro significati diversi) e metodologico (quello di circoscrivere la trattazione dell'argomento all'ambito strettamente scientifico-sperimentale).
Se si osservano un cane che abbaia e un sasso sappiamo subito riconoscere cosa è vivo e cosa inanimato. Dare però una definizione scientifica conclusiva che distingua i viventi dal mondo inanimato cioè come definire la vita, per mezzo di osservazioni macroscopiche e di senso comune, è un’impresa difficile. Intorno agli anni settanta del secolo scorso, si inizia a fare una lista delle caratteristiche del vivente. Così, organismo vivente era considerato un sistema capace di nutrirsi, crescere, riprodursi e reagire agli stimoli. La questione è che queste funzioni si riscontrano, singolarmente, anche nel mondo inanimato. Il granulo di un cristallo si “nutre” delle particelle in soluzione e cresce, può spezzarsi e riprodurre un altro cristallo. Si conoscono anche diversi sistemi meccanici che reagiscono ad uno stimolo termico o elettrico. Si è pensato allora di mettere come condizione, per definire un vivente, la presenza simultanea di tutte le caratteristiche sopra elencate. Ma poi, se il cane è gravemente malato e non riesce più a nutrirsi? E gli ibridi, come il mulo che non si riproducono?
La questione fu quindi spostata sulle popolazioni e infatti Maynard Smith in “La teoria dell’evoluzione” 1975, scrive: «Una lista così arbitraria ci serve a poco. Per fortuna la teoria della selezione naturale di Darwin ci dà, invece, una definizione soddisfacente. Noi consideriamo vivente una popolazione formata da entità che hanno la proprietà di moltiplicazione, di ereditarietà e di variabilità». Rimane ancora il problema degli ibridi che non si riproducono.
Agli inizi degli anni `80, come scrive Alessandro Minelli in “Gli albori della vita” Le Scienze”1984, si preferisce lasciare da parte la tentazione di definire il fenomeno “vita”. Verso la fine dello stesso decennio Manfred Eigen, in “Gradini verso la vita” 1987, dedica tutto il primo capitolo a questo argomento e infine conclude: «La domanda: “Che cos’è la vita?” ha molte risposte possibili, nessuna delle quali è soddisfacente […]. Troppo grande è la massa dei fenomeni complessi, troppo diversificati sono i caratteri e i comportamenti dei viventi perché una definizione generale possa avere senso».  Nel 2000, in “Da dove viene la vita”, Paul Davies tenta di dare una chiara idea di che cosa sia la vita e ritorna a proporre una lista. Egli elenca dieci caratteristiche essenziali per definire un vivente e conclude: «Posso riassumere questo elenco di qualità affermando che, in senso lato, la vita sembra coinvolgere due fattori cruciali: il metabolismo e la riproduzione». E gli ibridi?
Con Iris Fly ritorna la futilità di qualsiasi tentativo di “definire” la vita. L’autrice, in “Origine della vita sulla terra” 2002, dopo avere ripercorso alcuni tentativi di definire la vita da parte degli scienziati, conclude: «Chi ha tentato almeno una volta di produrre una definizione della vita ha fatto l’esperienza frustrante di accorgersi che o l’elenco delle sue proprietà è troppo ampio e si applica a sistemi non viventi, oppure è troppo ristretto escludendo alcuni esseri viventi. Una definizione funzionale che si concentri sulla nutrizione, il metabolismo e l’escrezione, potrebbe applicarsi anche ad un automobile, ma non ad un seme dormiente».
Ernst Mayr, in riferimento alla ricerca della vita nello spazio, in “L’unicità della biologia”2004, ritorna sulla necessità di dare una definizione di “vita” e scrive: «Personalmente accetto una definizione ampia: la vita deve essere capace di replicarsi e di usare l’energia ricavata dal sole o da alcune molecole disponibili, come i composti solforati presenti nelle fumarole oceaniche».
Rimane ancora il problema del seme e degli ibridi.
Anche Pier Luigi Luisi in “Sull’origine della vita e della biodiversità” 2013 ritiene utile isolare e definire un denominatore comune che accomuna tutti i viventi. L’autore, come egli stesso scrive, utilizza una metafora semi-seria. Egli immagine un Omino verde, proveniente da un sistema stellare molto lontano con una lista di cose terrestri contenente viventi e non viventi. L’Omino verde incontra un contadino al quale chiede di separare nella lista i viventi dai non viventi. Dopo una serie di obiezioni e chiarimenti finalmente si raggiunge un’intesa e l’Omino verde conclude: «Un sistema da voi è definito vivo se è capace di trasformare il nutrimento esterno in un processo interno di auto-mantenimento e produzione dei propri componenti». Pier Luigi Luisi evidenzia come si è raggiunto una definizione di vivente senza scomodare la biologia molecolare. La definizione comunque non contempla la riproduzione, anche perché nella lista che l’Omino verde mostra al contadino è presente il mulo, che non si riproduce.
 
deposiphotos
È un peccato che nell’elenco presentato dall’Omino verde, proprio ad un contadino, non fosse compreso il seme. Forse il contadino nel seme avrebbe visto già una pianta e quindi la vita. Ma allora la vita sarebbe ciò che si percepisce come vita, una sensazione. Così, se per un contadino il seme è vita forse non lo è per chi vive in città. E rimane anche da definire il cane ammalato.
In conclusione, lista o non lista, da un punto di vista scientifico non esiste una chiara e condivisa definizione di che cosa è la vita. Così, per alcuni il seme è vita mentre per altri non lo è, e lo stesso vale per il cane ammalato che non riesce a nutrirsi e auto mantenersi. Alcune definizioni portano infine all’assurda conclusione di considerare il mulo non vivente.
Ma perché non si riesce a dare una definizione alla vita?
Perché ogni volta che in una lista compaiono metabolismo, riproduzione ed evoluzione, esse vengono proiettate sempre verso il futuro, ma la selezione naturale non conosce il futuro.
Non ha senso una definizione di vita che guarda al futuro se il futuro non si conosce.
E allora, utilizziamo anche noi una metafora e vediamo, senza nessuna pretesa, se il senso comune ci suggerisce una definizione di vita.
In una calda sera d’estate una coppia siede in veranda illuminata da una debole luce. La moglie dice al marito: “È da un po’ che non vedo più il gatto, è sempre venuto tutti i giorni a chiedermi qualcosa”. Il marito conferma: “È vero, anch’io non lo vedo da almeno tre o quattro giorni, pensi che sia morto?” “Non so, risponde la moglie, avrà certamente i suoi anni. E poi, è stato sempre un randagio imprudente, continuamente in giro per tutto il quartiere attraverso le strade qui intorno, di giorno e di notte, e tu sai come queste strade sono ormai trafficate”. La coppia rimane a lungo in silenzio, ma ciascuno si domanda: qual è lo stato del gatto, è vivo o morto? Dopo un po’, dal buio appare il gatto che, con passi felpati, attraversa la veranda e si immerge nuovamente nel buio. Moglie e marito si guardano con soddisfazione, il gatto è vivo. Come hanno fatto a decretare lo stato del gatto? Attraverso l’osservazione. Quindi per decidere cosa è vita ci vuole un osservatore.  Ma l’osservatore è un elemento soggettivo, aleatorio ed è per questo motivo che non c’è accordo sugli ibridi, i semi e il cane ammalato. Per definire il vivente, siamo quindi costretti a fornire all’osservatore qualche elemento in più.
E allora, continuiamo con la nostra metafora.
Come abbiamo descritto, il gatto attraversa la veranda e ritorna nel buio oltre le siepi.
La moglie dice al marito: “Perché è andato via, se aveva fame avrei potuto dargli io qualcosa da mangiare”. “È il suo istinto-risponde il marito-per sopravvivere deve cacciare per nutrirsi”. Ma nutrirsi vuol dire saper utilizzare il nutrimento, cioè trasformarlo in energia e componenti utili all’organismo, in definitiva possedere un sistema metabolico. Noi però non sappiamo se il gatto troverà il nutrimento, potrà non trovarlo e morire di stenti. Sappiamo però che il gatto ha la capacità di nutrirsi e metabolizzare, che ci riesca o no riguarda il futuro, ma nessuno conosce il futuro. Poiché non ha senso un metabolismo senza nutrimento, con il termine metabolismo si deve intendere anche la capacità di nutrirsi.
Il metabolismo, deve necessariamente appartenere alla definizione di vivente.
Ora, noi sappiamo che già milioni di anni fa gli antenati del gatto attraversavano quei luoghi e per arrivare fino ai nostri giorni hanno dovuto riprodursi. Noi però non sappiamo se il nostro gatto avrà la possibilità o la capacità di riprodursi. Sappiamo tuttavia con certezza, che egli è un prodotto della riproduzione e questa certezza deve contribuire a definire il vivente.
Ma la riproduzione contiene una copia del genoma del genitore. Il genoma del genitore ha dovuto quindi replicarsi poco prima della riproduzione. Non ha senso parlare di riproduzione senza la replicazione del genoma. Il termine riproduzione deve quindi contenere la replicazione.
Sulla riproduzione ha agito la selezione naturale che ha permesso agli antenati del gatto di evolvere. Ma la selezione naturale non conosce il futuro e noi non sappiamo in che modo evolverà il gatto. Sappiamo tuttavia, con certezza, che i viventi sono prodotti dell’evoluzione dei propri antenati e questa certezza deve contribuire a definire il vivente.
E allora: la vita è uno stato della materia. Poiché esistono solo due stati, vita e morte, la vita è vita fino a quando non passa allo stato di morte, cioè fino a quando non si riconosce il “nuovo” stato, lo stato di materia inanimata.
Lo stato della materia che noi chiamiamo “vita” si regge su tre proprietà fondamentali: deve possedere un sistema metabolico ed essere un prodotto della riproduzione e un prodotto dell’evoluzione. La materia che non presenta simultaneamente queste tre proprietà fondamentali è materia inerte.
Nessuno in un automobile o in un cristallo riconosce un sistema metabolico ed essere il prodotto della riproduzione e dell’evoluzione. I cristalli di sale che si formano sugli scogli dopo l’evaporazione dell’acqua sono identici a quelli che si formavano miliardi di anni fa, nessuna differenza, nessuna evoluzione.
Il cane ammalato è temporaneamente impedito, ma possiede un sistema metabolico. È un prodotto della riproduzione e dell’evoluzione. Il cane ammalato è un vivente.  
enroquedeciencia.blogspot
Il mulo sopravvive per mezzo del metabolismo. È ininfluente se si riproduce o no, è però un prodotto della riproduzione e dell’evoluzione dei suoi antenati, la cavalla e l’asino. Il mulo è un vivente.
E i semi cui possiamo aggiungere anche le spore? Come i predatori che nascosti tra erbe e cespugli aspettano il momento giusto per attaccare la preda e sopravvivere, semi e spore protetti all’interno dei loro gusci aspettano pazientemente il loro momento per sopravvivere. Semi e spore hanno un sistema metabolico sono prodotti della riproduzione e dell’evoluzione delle piante, e di funghi e batteri. Semi e spore sono viventi.
Riassumendo: La vita è uno stato della materia che si regge su tre proprietà fondamentali: deve possedere un sistema metabolico ed essere un prodotto della riproduzione e dell’evoluzione.
La definizione di vita non può essere una percezione dell’osservatore ma far parte della teoria della selezione naturale di Darwin.
La cellula batterica è capace di metabolismo, è un prodotto della riproduzione e dell’evoluzione, essa è l’entità minima vitale, il primo stadio della vita su cui può agire la selezione naturale ed è quindi soggetta ad evoluzione.
Esistono però degli organismi che sono più piccoli dei batteri: i Virus. Si apre spesso il dibattito se i Virus siano da considerare organismi viventi o non viventi.
Luis P. Villareal esperto di virologia in “I Virus sono vivi?”, Le Scienze 2005, paragona i Virus ai semi in quanto a potenziale da cui può sgorgare la vita. Dorothy Crawford microbiologa tra i massimi esperti di virus è di parere opposto e nel suo saggio, “Il nemico invisibile. Storia naturale dei virus” 2002, scrive: «Diversamente dai batteri i virus non possono fare niente da soli. Non sono cellule ma particelle, e non hanno una fonte di energia né alcuno degli apparati cellulari necessari a produrre le proteine. Ciascuno di essi è composto semplicemente da materiale genetico circondato da un guscio proteico protettivo denominato “capside”. […] Ma per riuscire ad utilizzarlo devono penetrare in una cellula vivente e assumerne il controllo. […] Non appena un virus riesce a introdursi in una cellula, questa legge il codice genetico del virus che ordina “riproducimi”, e si mette al lavoro. In questo modo i virus invadono gli esseri viventi, ne requisiscono le cellule, e le trasforma in fabbriche per la produzione di virus». Inoltre, come ci informa ancora Crawford, fuori dalla cellula ospite i Virus non possono sopravvivere a lungo perché non dispongono dei processi metabolici di una cellula e quindi non sono capaci di nutrirsi.
La definizione di vita sopra esposta chiude definitivamente questo dibattito. I Virus non sono organismi viventi perché non presentano uno dei fattori che definisce la vita: il metabolismo.
Ma se i Virus non sono viventi ma particelle, sono simili ai sassi? Come scrisse il virologo Norman Pirie già nel 1934, sono sistemi che non sono né chiaramente viventi né chiaramente inanimati.
Se per indicare tali sistemi il termine Virus non è soddisfacente bisogna coniare un altro termine.
Abbiamo dato una definizione macroscopica della vita e individuato nella cellula batterica l’entità minima vitale, ma all’interno della cellula a livello molecolare, che cosa è la vita?
Nessuno scienziato ha mai avuto la pretesa di poter dare una risposta a questa domanda. La vita non si può identificare con una o con un gruppo di molecole. La vita è “emergenza”. Il termine emergenza si deve intendere nel significato dato da Ernst Mayr (opera citata): «La comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi complessi». «Essa non racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica». «Spesso nei sistemi complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si possono prevedere) neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
Quindi, la vita emerge da sistemi complessi, ma già a livello di sistemi semplici il mondo inanimato presenta delle analogie con il comportamento dei viventi.
La miosina è una delle proteine che partecipa al trasporto di materiali nella cellula. Vedere la miosina muoversi lungo i filamenti di actina, all’interno della cellula, sembra una piccola creatura a due gambe. Se la miosina viene portata fuori dalla cellula è immobile, ma se gli si fornisce il combustibile inizia a muoversi. La miosina non è vivente e non ha nessuno scopo, è una macchina molecolare, svolge solo funzioni come la catalasi che decompone l’acqua ossigenata e come migliaia di altre proteine.
Pier Luigi Luisi nel suo saggio “Origine della vita e della biodiversità” 2013, ha messo in evidenza come vescicole prodotte da acidi grassi possono riprodursi con meccanismi tipici degli organismi viventi.
Nell’articolo “L’ORIGINE DELLE PROTEINE: 3) La sintesi dei polipeptidi” abbiamo visto come gocce di composti diversi situati nelle vicinanze sembrano avere comportamenti a noi familiari. L’acqua sembra scappare alla presenza di alcool etilico e l’acido solforico circondato da gocce d’acqua sembra alla ricerca di una via di fuga.  Questi fenomeni sono stati denominati “Chemiotassi del non vivente”. Il termine chemiotassi indica la risposta dei batteri alla presenza di nutrienti o di repellenti. Ma già dalla metà del secolo scorso Oparin aveva messo in evidenza come vescicole di polimeri (coacervato) divenute troppe grosse tendevano a dividersi. Anche Sydney Fox ha prodotto coacervati di proteinoidi termici e osservato che questi ingrossando si dividono in modo simile ai batteri. I coacervati proteinoidi di Fox hanno inoltre deboli capacità enzimatiche.
Ci sono insomma, in molecole e aggregati, alcune analogie che richiamano processi vitali, ma tutti questi fatti hanno una spiegazione scientifica. E allora, è sempre valida la conclusione di Richard E. Dickerson già espressa nel 1976 in “L’evoluzione chimica e l’origine della vita” Le Scienze: «Gli esperimenti di Oparin e Fox sono solo analogie di processi vitali, ma sono suggestivi. Dimostrano la misura in cui il comportamento di tipo vitale è radicato nella chimica fisica e illustrano il concetto di selezione chimica per la sopravvivenza».
Concludendo, non esiste un “Èlan Vital”, uno spirito vitale, il comportamento di tipo vitale, l’origine dei processi vitali è radicato nella chimica fisica.
Esistono però dei fatti inspiegabili, veri misteri, che sono al di fuori di possibili spiegazioni chimico-fisiche.
A livello molecolare metabolismo vuol dire migliaia di reazioni chimiche, che provvedono alla trasformazione del nutrimento in energia e componenti necessari al mantenimento e alla crescita. Ma metabolismo vuol dire fondamentalmente proteine enzimatiche. Come abbiamo illustrato nell’articolo “Proteine: le macchine molecolari”, le proteine enzimatiche costituiscono catene di montaggio, guide, controllo qualità e riciclo, trasporto materiali pompe proteiche ed elettromotori. Queste macchine molecolari sono il motore della vita, controllano anche il genoma e sicuramente sono esistite da sempre. Esse erano certamente molto più rudimentali, ma dovevano sicuramente far parte di un “proto organismo”. Ma chi c’è dietro queste macchine, di che cosa sono costituiti queste macromolecole eccezionali?
Di costituenti eccezionali, unici e universali: gli amminoacidi. (Vedi post 11 e 12)
I composti della chimica organica sono circa 1,5 milioni e ordinati in gruppi. Si dà il caso che solo il gruppo degli amminoacidi presenta simultaneamente sette proprietà che abbiamo evidenziato come “sette colpi di fortuna” e che possiamo riassumere:
1) Semplici e facili da sintetizzare
2) Solubili e stabili in acqua.
3) Non devono reagire in acqua.
4) Si devono legare tra di loro dando origine ad un legame peptidico in risonanza
5) Devono essere chirali.
6) Devono contenere un -Hδ+ residuo sull’atomo di azoto.
7) Il residuo R non è casuale.
Nessun altro gruppo di composti organici possiede caratteristiche simili, e se fosse mancata solo una di queste proprietà, non sappiamo come sarebbe stata la vita, e forse non esisterebbe.
Ma chi ha dato origine agli amminoacidi? La materia inanimata.
Insomma, la materia inanimata ha fornito il materiale, gli amminoacidi, con tutte le proprietà giuste per la vita. Essa tutt’intorno ha creato un vuoto chimico in modo che la vita in formazione non abbia da sbagliare. Ed è da qui, dagli amminoacidi che inizia un particolare tipo di materia: la materia organica, la materia della vita.
Il segreto della vita, se esiste, sta negli amminoacidi, nella loro origine e in questi “sette colpi di fortuna”.
Rimane allora la domanda: ma come ha fatto la materia inanimata a dare origine ad amminoacidi con tutte queste proprietà, giusto quelle proprietà necessarie alla vita, mentre la vita è ancora in divenire?  
A questa domanda la scienza non ha nessuna risposta perché esula dal suo dominio.

                                                                                                        Giovanni Occhipinti


Prossimo articolo: Ma infine la vita come ha avuto origine? (fine aprile)