mercoledì 2 novembre 2016

PROTEINE: LE MACCHINE MOLECOLARI



Post n. 29

Fino alla metà del secolo scorso, la biologia molecolare era focalizzata principalmente sullo studio delle proteine. A quell'epoca struttura e funzione degli acidi nucleici non erano ancora note, mentre erano note il gran numero di funzioni svolte dalle proteine. Vi sono, per esempio, proteine nelle ossa e nelle cartilagini, esse sono la sostanza fondamentale dei muscoli e della pelle. Proteine sono gli ormoni e le sostanze che ci difendono dagli agenti esterni, altre hanno funzioni di trasporto. All’interno della cellula, nulla si muove senza l’intervento delle proteine. Alcuni esempi sul loro ruolo nella cellula ci aiuteranno a comprendere come ogni organismo vivente sia sotto il controllo costante delle proteine e come senza di loro la vita, sul nostro pianeta, non avrebbe avuto nessuna origine.
Con la scoperta, negli anni cinquanta del secolo scorso, della struttura degli acidi nucleici (DNA e RNA) e del codice genetico, gli studi della biologia molecolare si orientarono principalmente verso lo studio degli acidi nucleici. Da questi studi è risultato che il DNA è formato da quantità discrete, cioè di porzioni ben definite chiamate Geni e tali geni attraverso le regole del codice genetico esprimono le proteine. L’idea originale era che ogni gene esprimesse per una proteina. Quest’idea, attraverso la mistica dei geni replicatori di Dawkins, portò a considerare i geni come regolatori dell’attività cellulare. Quando fu completato il sequenziamento del DNA cioè la conta dei geni è risultato che esso contiene circa ventimila geni, ma le cellule umane contengono circa centomila proteine diverse. Quindi l’idea un gene una proteina non vale più. Questa conclusione, era già chiara all'inizio del nuovo millennio e infatti già a quell'epoca Carol Ezzel in “Adesso comandano le proteine”, Le Scienze 2002 scrive: «Applicare semplicemente i dati prodotti dal progetto Genoma umano - che ha finalmente mandato in soffitta l’obsoleto dogma secondo il quale un gene codifica per una proteina - non risolve il problema». L’autore ci illustra anche come già in quegli anni riprende con vigore lo studio delle proteine ed in particolare delle proteine enzimatiche o Proteomica.
Col proseguo della ricerca sorge un nuovo quadro teorico esplicitato da Richard C. Francis in “L’ultimo mistero dell’ereditarietà” 2011, che in riferimento ai geni afferma: «L’idea tradizionale è che siano una specie di funzionari direttivi che dirigono il nostro sviluppo. L’idea alternativa è che la funzione direzionale si trova a livello dell’intera cellula e i geni funzionano più che altro come risorse a disposizione della cellula stessa». E Steven Rose in “Geni, cellule e cervello”2013 aggiunge: «Non è il DNA a determinare l’attività cellulare, bensì è la cellula in cui il DNA è incorporato a sceglier quali pezzi di DNA usare per costruire determinate proteine quando e come: epigenetica».
Ma, come abbiamo detto, la cellula è sotto il controllo costante delle proteine e in particolare delle proteine enzimatiche o enzimi. All'interno della cellula avvengono migliaia di reazioni chimiche. Nelle condizioni chimico-fisiche in cui si trovano le cellule degli organismi viventi, queste reazioni sarebbero lentissime o non potrebbero avvenire e le cellule non potrebbero sopravvivere. Gli enzimi sono catalizzatori che accelerano e controllano la velocità delle reazioni chimiche permettendo alle cellule di sopravvivere. Per avere un’idea dell’azione di queste sostanze, basti pensare, come scrive Robert M. Stroud in “Una famiglia di proteasi” Le Scienze 1974, che senza gli enzimi proteolitici occorrerebbero 50 anni per digerire un pasto.
La caratteristica principale degli enzimi è la loro specificità, cioè catalizzano una sola reazione chimica. Una cellula di media grandezza contiene circa tremila enzimi diversi che controllano altrettante reazioni. Ognuno di questi enzimi è presente in più copie e per questo motivo all'interno di ogni cellula si trovano circa due milione di enzimi. Sorge quindi il problema di capire come realmente funzionano gli enzimi.
Lo studio del funzionamento della proteine enzimatiche inizia con Emil Fischer nel 1894. Era già noto a quell'epoca che gli enzimi sono costituiti dai venti amminoacidi diversi che compongono tutte le proteine. Un enzima medio contiene circa 300 amminoacidi che si ripiegano a formare una struttura globulare, fondamentale per esplicare la sua funzione. Gli enzimi riconoscono molecole in modo selettivo, ogni enzima riconosce solo un composto o al massimo due denominati “substrato” e su di essi agisce. La parte dell’enzima che riconosce il substrato o i substrati prende il nome di “sito attivo”. Partendo da queste considerazioni Fischer formulò l’ipotesi della “chiave e serratura”. Secondo questa teoria il sito attivo avrebbe una tale forma che il substrato si adatta come una chiave si adatta alla propria serratura.
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Ad ogni chiave la sua serratura, ad ogni composto il suo enzima.
Senza entrare troppo nei particolari, questo modello è stato sostituito dal modello dell’adattamento indotto. Come noto, l‘enzima cambia l’ambiente chimico-fisico al suo intorno. Quando il substrato entra in questo nuovo ambiente e sotto l’azione dell’enzima i suoi legami si allentano e assume una forma diversa chiamata “stato di transizione”. Lo stato di transizione può variare da una molecola all'altra e l’enzima si adatta a queste piccole variazioni di struttura.

wikipedia.org


Gli enzimi prodotti dall'evoluzione in quasi 4 miliardi di anni sono veramente sostanze straordinarie, vere e proprie macchine molecolari. Basti pensare che, una sola molecola di catalasi lega e trasforma circa 100 000 molecole di acqua ossigenata al secondo e rilascia altrettante molecole di acqua, e una sola molecola anidrasi carbonica trasforma 600 000 substrati (CO2 e H2O) al secondo.
Oltre all'aspetto catalitico gli enzimi presentano ciò che è stato definito “aspetto sociale”. Come scrive Mike Williamson in ”Come funzionano le proteine” 2013: «L’aspetto sociale associa l’enzima ad altri componenti, con una membrana o una proteina, oppure porta alla formazione di grandi complessi attraverso l’interazione con altri enzimi» E stato accertato che solo poche proteine agiscono da sole, la maggior parte prende parte a complessi e alcuni operano anche in più complessi. I componenti proteici di un complesso possono variare da 2 a 100. I complessi proteici hanno un’organizzazione simile ad efficientissime fabbriche. Per esempio nelle nostre cellule la metabolizzazione del glucosio avviene attraverso decine di reazioni chimiche. Queste reazioni non possono avvenire a caso ma devono essere regolate e programmate alla perfezione perché il prodotto di una reazione serve per una reazione successiva.



Sono gli enzimi che regolano ognuna di queste reazioni. Essi l’uno dopo l’altro, in modo coordinato e con straordinaria efficienza, come in una catena di montaggio, trasformano il substrato fornendo il prodotto per il successivo enzima. Ogni prodotto di una reazione trova quindi subito un altro enzima per una successiva trasformazione e tutto deve funzionare alla perfezione fino ai prodotti finali.
Abbiamo detto che un enzima medio contiene circa 300 residui di amminoacidi che si ripiegano in una struttura globulare.
Ma come si è arrivati a molecole così grandi? E come si forma la struttura globulare?
Intorno al 1970 è stata avanzata l’ipotesi che le proteine fossero costituite da domini, cioè una sequenza di amminoacidi che si conserva nel corso dell’evoluzione. Nel 1974 Rossman ha individuato un dominio di circa 70 amminoacidi presente in molti enzimi e propose che tale dominio fosse addirittura di origine prebiotica. Oggi molti ritengono che i domini, in epoca prebiotica, fossero più piccoli e costituiti principalmente da ꭤ-eliche di circa 20 amminoacidi. Le grosse molecole proteiche avrebbero quindi avuto origine dall'aggregazione ed evoluzione di piccoli domini. La diversa disposizione di questi domini, o l’aggregazione di un nuovo dominio ad un enzima già esistente, genera una nuova funzione. Questo porta a concludere, come scrisse già Russel F. Doolittle nel 1985 in “Le Proteine” Le Scienze: «[…], così la grande maggioranza degli proteine deve essere derivata da un numero ristretto di archetipi».
La struttura globulare di una proteina enzimatica viene chiamata struttura terziaria. La struttura primaria è una lunga catena che indica la posizione di ciascun amminoacido nella molecola proteica. Se rimasse così l’enzima non avrebbe nessuna funzione e ben presto si degraderebbe. Prima che avvenga la degradazione, si forma la struttura secondaria dove parecchi amminoacidi si organizzano in eliche e foglietti. Infine si forma la struttura globulare, cioè la struttura terziaria. La struttura globulare di una proteina (fold) è conseguenza della struttura primaria, ma dalla conoscenza di quest’ultima non siamo in grado di risalire alla sua struttura terziaria. Nella seconda metà del secolo scorso, l’analisi ai raggi X ha dato un grosso contributo alla conoscenza della struttura terziaria. Si pensava che conoscendo la struttura si potesse risalire alla funzione. Infatti, nel 1985 Russell F. Doolittle (opera citata) scriveva: «Uno dei maggiori obiettivi delle proteine è stata la conoscenza approfondita della loro struttura in modo da riuscire a comprenderne la funzione». Oggi si conoscono migliaia di strutture proteiche ma da queste risalire alla funzione è impresa ardua. Cionondimeno, come descrive Peter M. Hoffmann in “Gli ingranaggi di Dio” 2014, moderne apparecchiature con sonde che operano alle nano scale, sofisticati microscopi ottici che riescono a rilevare la luce emessa da una singola molecola e le cosiddette pinze Laser, ci hanno permesso di comprendere in che modo gli enzimi raggiungono la struttura globulare e come funzionano.
Il processo che dalla struttura primaria porta alla struttura terziaria è sotto il controllo termodinamico, cioè le molecole tendono ad assumere una disposizione cui corrisponde un minimo di energia, lo stato più stabile. Insomma come un sasso che rotola giù da una collina fino a raggiungere il fondo valle. Ma se il sasso lungo la sua discesa incontra dei terrazzamenti rischia di fermarsi a metà strada. In una situazione simile si trovano gli enzimi quando dalla struttura primaria devono raggiungere la struttura globulare. Infatti una proteina globulare che comprende circa 150 amminoacidi potrebbe ripiegarsi in innumerevoli modi. Secondo Anfinsen sarebbe di 1045 il numero delle possibili conformazioni generate in modo casuale. Anche se la maggior parte di queste conformazioni sono impossibili, in una singola proteina enzimatica rimarrebbero comunque un numero enorme di conformazioni a bassa energia, dove la differenza di energia, tra le diverse conformazioni, è piccola. Come si vede dal diagramma (denominato diagramma del paesaggio energetico) il processo di ripiegamento (folding) dovrebbe condurre l’enzima ad avere il minimo di energia.
 
elaborazione da: Treccani

Un leggero cambiamento dell’ambiente circostante potrebbe bloccare l’enzima in un minimo intermedio, come il sasso bloccato a metà strada da un terrazzamento.
Cosa ha inventato l’evoluzione per evitare questo rischio? Le guide: Chaperoni e Chaperonine.
Per capire come funzionano i chaperoni Mike Williamson (opera citata) usa la seguente metafora: «Nel diciannovesimo secolo, una donna sola in pubblico era spesso accompagnata da un chaperone, una donna più vecchia o sposata che impediva all'amica di impegnarsi in contatti inappropriati con l’altro    sesso. Per analogia, una proteina chaperone agisce impedendo alle proteine non strutturate
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di impegnarsi in interazione indesiderate […]». Le chaperonine conducono invece la struttura primaria alla giusta conformazione. Esse hanno la forma a barile con all'interno una cavità dove la proteina assume la giusta conformazione e viene quindi liberata nell'ambiente.
Può succedere comunque che, malgrado tutto ciò, una proteina risulta ancora non strutturata correttamente, danneggiata, o non più utile alla cellula. Cosa ti inventa l’evoluzione? Il controllo qualità e riciclo: ubiquitina e proteasoma
 L’ubiquitina è una molecola proteica piccola, stabile e molto abbondante nelle cellule. L’ubiquitina riconosce e si lega alle proteine da degradare; le proteine risultano così etichettate. Da questo momento la sorte della proteina da degradare è segnata. Il complesso proteina ubiquitina viene riconosciuto da un altro complesso proteico: il proteasoma. Quest’ultimo è una vera e propria macchina molecolare: un digestore. 
HMB-Anderson

Anch'esso a forma di barile, appena viene a contatto con il complesso proteina-ubiquitina, stacca quest’ultima che ritorna in circolo nella cellula e ingoia la proteina da degradare. La degradazione porta a peptidi di circa sette residui che vengono rilasciati nella cellula per essere riutilizzati.
Non è noto quando sia iniziato, tra gli umani, il trasporto e lo scambio delle merci. La cellula lo aveva già inventato 3,5 miliardi di anni fa: microtubuli, chinesine, dineine, miosine e actina.
Che all'interno della cellula ci fosse un traffico intenso, come ci documenta Robert Day Allen in “Il microtubulo come motore molecolare intracellulare” Le Scienze 1987, era già noto fin dal XIX secolo ad opera di Joseph Leidy. Intorno alla metà degli anni sessanta del secolo scorso furono scoperti i microtubuli, lunghi canali del diametro di circa 25 nanometri e lunghi circa 100 000 nano metri (alle dimensioni accessibili ai nostri sensi è come se avessimo tubi del diametro di 1 cm e lunghi 4000 cm, 40 metri). I microtubuli sono costituiti da lunghe catene proteiche intrecciate: la tubulina. Si è subito compreso che i microtubuli avevano, all'interno della cellula, funzioni strutturali. Furono Allen e collaboratori, intorno al 1985, a scoprire che oltre alle funzioni strutturali i microtubuli erano, di fatto, le vie utilizzate dalle cellule per il trasporto di materiali con il contributo di due altre proteine: l’actina e la miosina. Più avanti si è scoperto che altre proteine, dineina e chinesina, partecipano al trasporto di materiali nella cellula.
I movimenti di chinesina e dineina sul microtubulo e la miosina che si muove su filamenti proteici di actina, vere e proprie macchine molecolari, sembrano proprio di tipo umanoide come raffigura l’immagine tratta dal saggio di Hoffmann già menzionato.
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La parte superiore è una vescicola che contiene i nutrienti, il corpo poggia su due piedi che si spostano microtubulo. Imita il nostro modo di camminare e tiene sempre un piede a terra cioè sul microtubulo. Per alzare un piede ha bisogno di energia, ATP. Una specie di mortaretto che esplode sotto il piede, lo stacca dal microtubulo e lo fa oscillare facendolo avanzare. Ma un’idea più chiara del suo movimento si può avere guardando i fantastici video presenti su Youtube, per esempio:
Questi video non sono animazioni immaginarie o elaborazioni al computer. I video sono stati certo elaborati ma reali. Essi, come ci conferma Hoffmann nel suo saggio, sono stati ottenuti con speciali strumenti che riescono a filmare il movimento di una singola molecola.
Hoffmann, dopo aver visto il video della miosina muoversi lungo i filamenti di actina come una piccola creatura a due gambe, scrive: «Possibile che la molecola sia viva? No, non nel vero senso del termine. Guardandola sfilare davanti a noi, possiamo renderci conto di come tutte queste macchine, interagendo in maniera controllata, possano creare un essere vivente. È qui, non c’è dubbio, che comincia la vita».
Infine, in modo molto sintetico, vogliamo descrivere altre tre tipi di macchine, le copiatrici molecolari: Elicasi, Polimerasi e RNApolimerasi
Il DNA è una molecola a doppia elica che contiene l’informazione necessarie per la sintesi delle proteine. Le due eliche sono tenute insieme da deboli legami (legami idrogeno). Poiché questi legami sono milioni, la molecola del DNA risulta molto stabile. Inoltre l’intera molecola, per difenderla da eventuali processi di degradazione, è avvolta da numerose proteine. Durante la divisione cellulare il DNA deve essere copiato e una copia trasferita alla nuova cellula. Per copiare il DNA bisogna innanzitutto separare le due eliche. La copiatura del DNA coinvolge un gran numero di
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proteine, ma il compito principale è svolto dall’elicasi. L’elicasi è una proteina ad anello simile a una stella a sei punte.  Essa si fa spazio tra le molecole proteiche che avvolgono il DNA e appena lo raggiunge si apre, lo avvolge al suo interno e si richiude.
Questa macchina molecolare apre, innanzitutto, la doppia elica e quindi come un paio di forbici si sposta lungo il DNA e separa le due eliche. Altre due proteine, polimerasi e topoisomerasi, sono
 
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incaricate della ricostruzione delle doppie eliche a partire dagli elementi costitutivi che si trovano nella cellula. Come motori perfettamente coordinati, man mano che l’elicasi taglia il DNA la polimerasi la segue e ricostituisce la doppia elica mentre un’altra polimerasi (la topoisomerasi) ricostituisce un’altra doppia elica nella direzione opposta. Alla fine avremo due copie identiche una per ogni cellula.  
L’RNApolimerasi è la proteina che trascrive un pezzo di DNA in RNA messaggero per la sintesi delle
 
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proteine. Essa si attacca al DNA e quindi si muove lungo la doppia elica fino a quando trova la sequenza giusta da cui iniziare: il  promotore. La RNA polimerasi è un macchina molecolare formidabile, fa tutto da sola. Appena trova il promotore questa polimerasi stacca le due eliche, muovendosi lungo i filamenti trascrive un pezzo di DNA (gene) in RNA messaggero, corregge eventuali errori e concluso il processo di copia ricuce il DNA e si allontana.   
Come abbiamo illustrato, nelle cellule operano catene di montaggio, guide, controllo qualità e riciclo, trasporto materiali e potremmo ancora aggiungere pompe proteiche ed elettromotori. Queste macchine molecolari sicuramente sono esistite da sempre. Esse erano certamente molto più rudimentali, ma dovevano essere lì fin dalle origini. Non è immaginabile l’origine della vita senza queste macchine molecolari.
Anche noi abbiamo inventato catene di montaggio, controllo qualità e riciclo, pompe, elettromotori e quanto segue, ma dietro le nostre invenzioni c’è sempre un pensiero, una mente.
E allora chi c’è dietro le invenzioni cellulari? Ovvero: ma la vita che cosa è?

                                                                                               Giovanni Occhipinti


Prossimo articolo: Ma la vita che cos'è? (fine Gennaio)

lunedì 11 luglio 2016

ASIMMETRIA MOLECOLARE E CAMPO MAGNETICO TERRESTRE



Post n. 28


Come abbiamo ampiamente esposto negli articoli riguardanti il problema dell’asimmetria molecolare, gli amminoacidi, costituenti le proteine, esistono sotto due forme, Destro e Levo, una l’immagine speculare dell’altro. Queste due forme molecolari hanno le stesse proprietà chimico-fisiche e quindi si presentano sempre insieme. Poiché sia la forma D che la forma L, in epoca prebiotica, erano sicuramente disciolte in acqua, il disordine molecolare avrebbe prodotto reazioni incrociate tra amminoacidi L e D e dato origine a proteine contenenti le due forme, ma di nessun interesse biologico. Ora la questione è che tutte le proteine, in tutti gli organismi viventi, sono costituite solo da amminoacidi della forma L. La vita è quindi asimmetrica, ma come è avvenuta tale scelta? Da oltre un secolo e mezzo la ricerca si è spesso orientata verso l’esistenza, nel mondo minerale, di un materiale asimmetrico che abbia coadiuvato tale scelta. Partendo dalla teoria di Bernal sul ruolo delle argille e del quarzo, osservazioni polarimetriche hanno messo in evidenza come la silice colloidale ruota il piano della luce polarizzata a sinistra. La silice colloidale potrebbe essere quindi quel minerale asimmetrico, da tanto tempo ricercato, che abbia favorito gli amminoacidi L. Abbiamo supposto che la deviazione della luce polarizzata della silice colloidale sia dovuta alla formazione di strutture elicoidali del tipo quarzo Levo. Ma se la silice colloidale in soluzione acquosa dà origine a strutture elicoidali, hanno la stessa probabilità di formarsi sia strutture Destro che strutture Levo.
Perché avrebbe prevalso la forma Levo?
Nell'articolo “Origine delle proteine: il problema dell’asimmetria molecolare (quinta parte)” avevamo avanzato l’ipotesi che il campo magnetico terrestre avesse giocato un suo ruolo fondamentale nell'asimmetria della silice colloidale. Infatti l’articolo concludeva: “In definitiva le unità strutturali tetraedriche della silice, legandosi per dare particelle colloidali, potrebbero orientarsi in qualsiasi direzione e un contributo, anche se piccolissimo, potrebbe darle una direzione preferenziale. Tale contributo potrebbe essere dato dall'effetto combinato tra il campo magnetico terrestre e i tre fattori sopra elencati: l’asimmetria dell’acqua, la formazione dei cluster e l’unità strutturale tetraedrica.
 È possibile quindi che questo effetto combinato imponga una direzione preferenziale e sia all'origine dell’asimmetria della silice colloidale».
Ma allora, eliminando il campo magnetico terrestre l’asimmetria della silice colloidale dovrebbe scomparire.
Il mio rapporto con la Magistri Cumacini, la scuola dove ho insegnato per quasi trent'anni, in realtà non si è interrotto. Un gruppo di insegnanti, ormai in pensione, collaboriamo al riordino e al funzionamento della biblioteca scolastica.
La domanda sul campo magnetico, in verità, non me la sono posta io, ma un caro collega di fisica, il professore Clemente Cattaneo. In realtà, come Clemente mi ha illustrato, il campo magnetico terrestre non si può eliminare completamente. Ad ogni modo abbiamo deciso di provare.
Non è mancata, come di consueto, la gentilezza e l’interesse dell’ing. Enrico Tedoldi, Dirigente Scolastico, che ci ha concesso l’autorizzazione.
Dopo aver misurato il campo magnetico presente in laboratorio, corrispondente a 0,16 Gauss, Clemente ha predisposto l'attrezzatura necessaria. Essa è costituita da un solenoide di 20 cm e 150 spire, percorso da una corrente continua di 17mA che genera un campo magnetico d'intensità pari a circa 0,16 Gauss. Disponendo la polarità del solenoide inversa al campo magnetico terrestre, abbiamo sicuramente ridotto se non annullato il campo della stessa. Purtroppo non abbiamo potuto valutare la variazione del campo prodotta dalle parti metalliche del polarimetro, ma essa è sicuramente trascurabile rispetto al campo generato dal solenoide. Abbiamo infatti constatato che una sensibile bussola non subiva rilevanti deviazioni all'interno del polarimetro che è stato costruito in alluminio, acciaio inossidabile e plastica.
Con polarità diretta il campo è stato, invece, aumentato.
Per l’esperimento sono stati utilizzati Na2SiO3 (Vetro solubile) in H2O e CH3CH2OH (Alcool etilico), Agitatore magnetico, Polarimetro “Polax 2L”. Nel Polarimetro il sostegno metallico del tubo di prova è stato sostituito da un identico sostegno in legno.
Procedure e dati:
1) Procedura standard:
0,3g di Na2SiO3 in becher, aggiunti 38cc di H2O su agitatore magnetico a 300 giri per 1 minuto.
Aggiunti 12cc di CH3CH2OH e si continua l’agitazione ancora per ½ minuto.
Si toglie il becher dall’agitatore e si lascia riposare 2 minuti.
Dopo riposo la soluzione si versa nel tubo polarimetrico, si chiude il tubo polarimetrico e si poggia sul sostegno all’interno del polarimetro; tempo richiesto 1 minuto.
Si lascia riposare la soluzione da 1 a 2 minuti all’interno del polarimetro e si esegue la misura.
2) Procedura con circuito per diminuire il campo magnetico:
Si esegue la procedura standard ma il circuito viene inserito all’esterno del tubo polarimetrico prima del riempimento.
Risultati.
Procedura 1)
Deviazione del piano della luce polarizzata: -0,20
Procedura 2)
Deviazione del piano della luce polarizzata: Prima prova: -0,15; Seconda prova: -0,20
Non sappiamo di quanto il circuito abbassi il campo magnetico terrestre. Si può comunque concludere, che non si è osservata nessuna diminuzione della deviazione della luce polarizzata che vada oltre il limite di sensibilità del polarimetro.
Ma se il campo magnetico contribuisce all'asimmetria della silice colloidale, aumentando il campo magnetico deve aumentare la deviazione della luce polarizzata.
Questa domanda in realtà se l’è posta ancora una volta Clemente.
Qui abbiamo giocato su dati certi: abbiamo sottoposto la soluzione a quattro volte il campo magnetico terrestre. Come spesso avviene nella ricerca, succede ciò che non ti aspetti: La deviazione della luce polarizzata non solo non è aumentata, ma è scomparsa. La silice colloidale ha perso la sua asimmetria.
1) Procedura standard: come sopra
2) Procedura standard + 4 volte il campo magnetico terrestre, inserendo il circuito all’esterno del tubo polarimetrico prima del riempimento.
Deviazione della luce polarizzata (le prove sono state condotte in modo alternato).
Procedura 1), Prima prova: -0,25, Seconda prova: -0,20, Terza prova: -0,20
Procedura 2), Prima prova: 0, Seconda prova: 0, Terza prova: 0
Per trarre conclusioni definitive bisognerebbe fare un certo numero di prove e costruire un grafico a diversi valori del campo magnetico. Io, però, non dispongo più di un laboratorio e non è corretto abusare della gentilezza altrui. Le prove sopra illustrate rimangono quindi indizio, un forte indizio sul ruolo giocato dal campo magnetico terrestre.
È possibile che senza la presenza di un campo magnetico non ci sia asimmetria della silice colloidale. La comparsa di un campo magnetico impone, attraverso i tetraedri di acqua orto, una leggera rotazione alle strutture silicee e quindi la comparsa dell’asimmetria della silice colloidale. È probabile allora che oltre un certo valore, il forte campo magnetico terrestre non produca una rotazione ma imponga un forte allineamento ai piccoli campi magnetici delle molecole dell’acqua orto distruggendo l’asimmetria della silice colloidale.

Accorgimenti
Per fare misure di precisione al polarimetro sono opportuni i seguenti accorgimenti.
Durante l’uso il polarimetro si scalda e dopo qualche ora passa da 20°C a 26°-27°C.
Al variare della temperatura del polarimetro varia anche lo zero del polarimetro. Lavorare a temperatura ambiente, accendendo e spegnendo il polarimetro, non lo mantiene a temperatura costante e quindi bisogna continuamente rincorrere lo zero-set. È preferibile accendere il polarimetro, attendere mediamente 2h, fino a quando la temperatura si stabilizza e quindi azzerare. Controllare ad ogni lettura la temperatura, l’oscillazione non deve essere maggiore di ± 0,2°C.
La capsula a vite ed il vetrino del tubo polarimetrico, devono essere sempre nella stessa posizione e ciò per evitare errori dovuti allo spessore del vetro o della guarnizione interna. Fare dei segni sul vetrino e sulla capsula e posizionarli sempre in corrispondenza.
Se durante la chiusura il vetrino non rimane attaccato alla guarnizione di gomma, mettere una gocciolina d’acqua sulla guarnizione e poggiare sopra il vetrino.
Azzerato il polarimetro a vuoto, se si inserisce il tubo polarimetrico con acqua si osservano valori diversi quando lo stesso viene ruotato. Incollare sul tubo polarimetrico un adesivo con quattro segni. Si osserva al polarimetro, si ruota nelle quattro posizioni e si sceglie la posizione che più si avvicina allo zero. Si azzera e si passa a misurare il campione utilizzando la posizione di riferimento.
                                                                                                      Clemente Cattaneo
                                                                                                      Giovanni Occhipinti 

Prossimo articolo fine ottobre. "Le proteine: queste fantastiche macchine molecolari"

martedì 31 maggio 2016

L'ORIGINE DEL CODICE GENETICO: La teoria elettrocinetica



Post n.27

L’origine del codice genetico è stato definito: l’enigma universale.
Per rendere comprensibile il ragionamento a chi non avesse letto gli articoli precedenti, e per non perdere l’unità dell’argomento, è utile riproporre cosa si intende per codice genetico, cioè la legge di corrispondenza tra l`mRNA e gli amminoacidi per la sintesi delle proteine.
L’mRNA è l’acido nucleico messaggero che trasporta l’informazione per la sintesi delle proteine ed è costituito da nucleotidi. I costituenti dei nucleotidi sono:
il gruppo fosfato: (H2PO4)-.
Uno zucchero, il Ribosio, il quale esiste in due forme Destro e Levo una l’immagine speculare dell’altra. Nei nucleotidi entra a far parte solo il destro: il D-Ribosio.

Quattro basi azotate: A (Adenina) e G (Guanina) appartenenti alla famiglia delle Purine, U (Uracile) e C (Citosina) appartenenti alla famiglia delle Pirimidine.

Il legame tra un gruppo fosfato, una molecola di Ribosio e una molecola qualsiasi delle quattro basi danno origine a quattro diversi composti che prendono il nome di nucleotidi. Dei quattro nucleotidi, come esempio si riporta l'Adenosin-5-fosfato.






Legando insieme alcune centinaia di nucleotidi diversi si ottiene un macromolecola: l’mRNA


(Figure da: “Lezioni di biofisica)” di Mario Ageno

Nell’mRNA ai tre nucleotidi adiacenti si dà il nome di “tripletta” e si indicano con le lettere delle basi. Per esempio, nella figura i tre nucleotidi che espongono le basi UAC costituiscono una tripletta. Se a seguire, nella figura, ci fossero GUA, saremmo in presenza di un’altra tripletta e così via. A partire da questa macromolecola di RNA, attraverso un processo, oggi abbastanza complesso, vengono assemblate le proteine. Ad ogni tripletta (detta anche codon) corrisponde uno specifico amminoacido, uno e uno solo, e tale legge di corrispondenza, rappresentata con 3:1, viene chiamata: codice genetico. Anche se negli ultimi decenni sono state scoperte alcune eccezioni, si può affermare che tutti gli organismi viventi sul nostro pianeta utilizzano lo stesso codice genetico, esso è quindi universale.
Avendo a disposizione quattro nucleotidi i modi in cui li possiamo disporre tre a tre, cioè il totale delle triplette che possiamo ottenere, sono 43 = 64. Tre di queste triplette sono utilizzate come segnale di termine (t.), quindi, in teoria, l’mRNA contiene l’informazione per 61 amminoacidi. Poiché gli amminoacidi a disposizione di tutti gli organismi viventi sono solo 20, il codice genetico è degenere nel senso che più triplette codificano per lo stesso amminoacido.
Per esempio le triplette che presentano in 1a, 2a, e 3a posizione GUU, GUC, GUA, GUG, codificano tutte lo stesso amminoacido: la Valina (Val).



Vediamo adesso, in modo molto sintetico, come funziona oggi la sintesi delle proteine negli organismi viventi.


(Figura elaborata: da Mario Ageno "Lezioni di biofisica")
Una particolare sequenza di nucleotidi dell’DNA (gene), contenente l’informazione per la sintesi di una ben determinata proteina, viene trascritta in mRNA. Tale molecola, come il nastro perforato di un vecchio elaboratore elettronico, scorre all’interno di un organello, il Ribosoma. Quest’ultimo, legge l’informazione contenuta nell’mRNA e ad ogni tripletta di basi consecutive dell’mRNA (codon) fa corrispondere l’amminoacido specifico. L’amminoacido, però, non entra direttamente nel ribosoma, ma viene trasportato da un particolare tipo di acido nucleico, il tRNA. Quest’ultimo contiene ad una estremità una tripletta di basi (anticodon), complementare al codon, e all’altra estremità l’amminoacido specifico. Tramite la partecipazione di enzimi gli amminoacidi Pro, Phe, Ala, Ser e seguito, vengono così legati (come nella figura), nell’ordine giusto, a formare la proteina.
Come abbiamo detto questa è una rappresentazione estremamente semplificata del processo. Basti pensare che il ribosoma batterico, consiste di due sub unità: la prima è legata a trentaquattro proteine e la seconda a ventuno proteine; entrambe contengono acidi nucleici. Una macchina così elaborata sicuramente non era presente in epoca prebiotica.  Inoltre, nella cellula, per ogni amminoacido è presente un adattatore, un tRNA, con un enzima specifico, cioè altre 40 molecole e se si aggiungono gli enzimi che partecipano a tutto il processo raggiungiamo la cifra di circa 50 composti. Un sistema così complesso è inimmaginabile agli albori della vita. Tutti gli scienziati che si occupano del problema, ritengono che alle origine doveva sicuramente esistere un processo di sintesi delle proteine molto più semplice e rudimentale.
Il primo ad elaborare una teoria sull’origine del codice genetico, un anno dopo la scoperta della doppia elica del DNA, fu George Gamow nel 1954. Egli propose una interazione diretta tra tripletta di acido nucleico e amminoacido. In verità a quell’epoca non era stato ancora scoperto il ruolo dell’mRNA. Inoltre Gamow non propose nessun meccanismo chimico-fisico alla legge di corrispondenza tra tripletta e amminoacido e fu quindi facile demolire la sua teoria. Se infatti si considera la sequenza di quattro basi UUCG, UUC codifica un amminoacido mentre UCG codifica un altro amminoacido, come avverrebbe la scelta. Senza un meccanismo chimico-fisico date quattro basi si può saltare da una tripletta ad un’altra e dare origine a proteine completamente diverse. La teoria di Gamow rimase comunque un’idea attraente.
Nel 1966 Woese, con altri ricercatori, pubblica: “The molecular basis for the genetic code”. Il lavoro riguarda una ricerca di cromatografia su carta per studiare l’interazione tra tripletta e amminoacido. Non potendo utilizzare direttamente né il trinucleotide né le basi, Woese e collaboratori scelsero come solvente la Piridina, un composto vicino alla Pirimidina capostipite delle basi Uracile e Citosina. Gli autori concludono che esiste una gerarchia nelle basi della tripletta, rispetto alla scelta degli amminoacidi, definibile in termini di interazione polare o non polare. In particolare la scelta dell’amminoacido è determinato principalmente dalla base in 2a posizione. La base in 1a posizione è vista come una perturbazione che sceglie tra amminoacidi simili, mentre la 3a posizione interagisce debolmente sulla scelta dell’amminoacido e gioca quindi un ruolo minore.
Analizzando la questione, Jaques Monod in “Il caso e la necessità” 1970 conclude con questa alternativa:
«a) La struttura del codice genetico è spiegabile in termini chimici o più esattamente stereochimici; se un certo codone è stato scelto per rappresentare un determinato amminoacido, vuol dire che, tra essi, esisteva una certa affinità stereochimica;
b) La struttura del codice è arbitraria dal punto di vista chimico; Il codice come noi lo conosciamo oggi, deriva da una serie di scelte casuali che lo hanno gradualmente arricchito.
La prima ipotesi sembra di gran lunga la più attraente, perché spiegherebbe l’universalità del codice e poi perché consentirebbe di immaginare un meccanismo di traduzione primitivo in cui l’allineamento sequenziale degli amminoacidi nella struttura polipeptidica sarebbe dovuta ad una interazione diretta tra gli amminoacidi e la stessa struttura replicativa».
Monod riporta quindi una conclusione di F. Crick del 1968: «Numerosi tentativi in questo senso sono stati effettivamente compiuti ma presentano un bilancio almeno per ora negativo». F. Crick già da tempo aveva proposto come ipotesi “l’accidente congelato”. L’origine del codice genetico, secondo questa ipotesi, sarebbe stato un evento casuale che una volta avvenuto si è congelato, cioè non è più potuto tornare indietro.
Nel 1984 Mario Ageno in “Lezioni di biofisica”, esamina la struttura formale del codice genetico da cui emerge, come vedremo più avanti, una certa centralità delle basi in 1a e 2a posizione nell’assegnazione dell’amminoacido. Egli riporta anche una proposta di Orgel: «All’inizio, U in 2a posizione avrebbe voluto dire amminoacido idrofobico, A amminoacido idrofilo, mentre C e G sempre in 2a posizione avrebbero significato amminoacidi intermedi tra i primi due gruppi».  Comunque, egli dopo aver preso in esame i lavori prodotti fino a quel periodo conclude che dopo le conclusioni di Crick del 1968 non si sono fatti passi avanti.
Nei lavori, successivi al 1984, si sono privilegiati processi metabolici o coevolutivi che prevedono comunque la presenza di altre molecole, principalmente tRNA, come adattatori. Tra questi ultimi lavori hanno destato qualche iniziale interesse i lavori di Yarus M. (RNA-ligand chemistry: a testable source for the genetic code, 2000) e di Yarus M1Caporaso JG, Knight (Origins of the genetic code: the escaped triplet theory, 2005). In essi si ipotizza, almeno per alcuni amminoacidi, una qualche interazione stereochimica diretta tra codone e amminoacido e che successivi processi evolutivi abbiano portato il codice a minimizzare gli errori di traduzione. Sembra che tali errori di traduzione dovuti ad errata lettura stiano nel rapporto di 10:1:100 per errori relativi rispettivamente alla 1a, 2a e 3a posizione. L’ipotesi, già avanzata da C. R. Woese nel 1965 per la tripletta UUU, è stata estesa dagli autori a tutte le triplette contenete un pirimidina 2a posizione.
È accertato il fatto che, una volta iniziato il processo di evoluzione cellulare, il codice genetico abbia subito qualche modifica. Come riportano Eugene V. Koonin  e Artem S. Novozhilov in “Origin and evolution of the genetic code: the universal enigma” 2009: «Oggi, ci sono ampie prove che il codice standard non è letteralmente universale, ma è soggetto a modifiche significative, pur senza cambiamenti alla sua organizzazione di base».
La questione è che i processi evolutivi presuppongono già l’esistenza di una vita cellulare. Ma in presenza di cellule, se l’evoluzione avesse contribuito all’origine del codice genetico, ogni specie vivente avrebbe elaborato un proprio codice genetico ed esso non sarebbe universale. L’origine del codice deve necessariamente precedere la vita cellulare e l’evoluzione Darwiniana. L’epoca dell’origine del codice genetico è l’epoca prebiotica. In definitiva, dopo oltre sessant’anni di ricerche, sembra accertata la centralità delle basi in 1a e 2a posizione nella scelta degli amminoacidi con la 2a base predominante, ma non conosciamo ancora l’origine del codice genetico.
Ma com’è stato possibile?
Forse alla base di tutto c’è un errore di fondo.
Come abbiamo visto il termine “tripletta” illustra molto bene la struttura del codice genetico, ma nasconde un fatto fondamentale da tutti trascurato: noi conosciamo le proprietà degli amminoacidi ma non conosciamo le proprietà della tripletta. Così, alla fine, ci siamo ritrovati a confrontare le proprietà chimico-fisiche degli amminoacidi con alcune lettere dell’alfabeto (U, A, C, G). Ma c’è di più: ogni base della tripletta è legata (come da immagine sopra) ad un Ribosio ed il Ribosio ad un gruppo fosfato a formare tre nucleotidi. Il legame, attraverso i gruppi fosfato, dei tre nucleotidi forma un trinucleotide che espone le tre basi, cioè la tripletta. Quindi le proprietà della tripletta non sono della tripletta stessa ma sono le proprietà di tutto il trinucleotide. Possiamo esprimere la questione in questo modo: i trinucleotidi, hanno proprietà specifiche che variano al variare della tripletta. È tutto il trinucleotide a specificare l’amminoacido e non la sola tripletta. Il rapporto 3:1, tre basi un amminoacido è concettualmente errato. La rappresentazione giusta sarebbe: un trinucleotide un amminoacido, 1:1. Possiamo lasciare, per comodità, la rappresentazione 3:1 ma esso deve essere inteso in questo modo: Il trinucleotide che espone quelle tre basi codifica uno specifico amminoacido. Ed è anche errato dire che i costituenti degli acidi nucleici sono i nucleotidi, perché il nucleotide non rappresenta nulla; i costituenti degli acidi nucleici sono i trinucleotidi. Il trinucleotide, può essere considerato una entità a sé, che interagisce con gli altri trinucleotidi nell’mRNA ma che deve presentare già di suo una peculiarità.
Ma abbiamo almeno un indizio dell’esistenza di questa peculiarità.
Come abbiamo già visto altrove, in riferimento alla legge di corrispondenza, Mario Ageno si chiede se il codice genetico sia stato fin dalle origini 3:1; è possibile che in epoca primitiva esso fosse diverso per esempio 2:1? Egli, in “Lezioni di Biofisica” 1984, esclude una simile eventualità, perché, in tal caso, tutti i processi metabolici realizzati con un codice 2:1 sarebbero andati persi nel passaggio ad un codice 3:1 e l’evoluzione avrebbe dovuto cominciare da capo, ma aggiunge: «È tuttavia ammissibile che all’inizio non tutte le tre posizioni venissero lette: forse le prime due mentre la terza aveva la funzione di spaziatura».
Se venissero lette solo le prime due posizioni, lasciando la terza come spaziatura, cioè se ordiniamo i quattro nucleotidi due a due, sarebbero stati sufficienti 42 = 16 amminoacidi. Secondo Paul Davis, (Da dove viene la vita,2000), raggruppare i quattro nucleotidi in coppie anziché in triplette e utilizzare 16 amminoacidi sarebbe stato molto più semplice per l’origine della vita.
La vita avrebbe potuto funzionare altrettanto bene con un numero di amminoacidi inferiore a 20. Probabilmente la vita non avrebbe raggiunto il grado di complessità di oggi, ma avrebbe funzionato.
Perché non è stata fatta questa scelta?
Ma possiamo anche chiederci: avendo a disposizione 4 basi perché non è stato scelto un codice 4:1? Certo, con un simile codice si possono codificare 44 = 256 amminoacidi, con il rischio aumentare gli errori di traduzione; e come facevano le molecole a sapere di tale rischio. D’altra parte, la scelta del codice non può essere stata un processo evolutivo perché la vita non esisteva ancora e quindi neanche l’evoluzione.
C’erano quindi tre possibilità: un codice 2:1, 3:1 o 4:1, ha predominato il codice a tripletta 3:1. Ma questo significa che il trinucleotide che espone la tripletta deve possedere una sua peculiarità. Il trinucleotide deve cioè possedere almeno una proprietà che la distingue dagli altri codici.
Fatta questa precisazione, se alle origini non esistevano processi evolutivi, se non poteva esistere un sistema di adattatori a tRNA con enzima specifico per ciascun amminoacido perché troppo complesso, allora doveva esistere un’affinità stereochimica non tra triplette (codoni) e amminoacido ma tra trinucleotidi e amminoacidi; un’interazione chimico-fisica diretta che codificasse immediatamente l’informazione dell’acido nucleico.
E allora, andiamo innanzitutto alla ricerca di qualche indizio di una tale affinità stereochimica e, successivamente, quale proprietà distingue il trinucleotide dagli altri codici.
Come abbiamo già ampiamente illustrato in altri articoli, il quarzo cristallino a contatto con soluzioni dà origine, sulla sua superficie, a doppi strati elettrici paragonabili a micro condensatori. Attraverso la misura dei potenziali di flusso si evince che gli amminoacidi si accumulano sulla superficie del quarzo a ben determinati potenziali, potenziali specifici.
Ebbene, tra la struttura del codice genetico e i potenziali specifici degli amminoacidi sembra esistere un corrispondenza reciproca, in particolare:
1) Otto amminoacidi su venti vengono codificati già dalle prime due lettere (la terza viene indicata con un puntino), cioè ciascun amminoacido, come si vede dalla tabella del codice genetico, è già codificato da una sola coppia di basi in 1a e 2a posizione. E sono:
Leu – CU∙     Val – GU∙     Ser – UC∙     Pro – CC∙     Thr – AC∙     Ala – GC∙    Arg – CG∙     Gly - GG∙
Di questi amminoacidi, i tre a nostra disposizione presentano ciascuno un solo potenziale specifico.
Pro 10,10 mV    Val 9,90 mV   Ala 9,70 mV
2) Otto coppie di amminoacidi vengono codificati già dalle prime due lettere, cioè in otto casi, due amminoacidi vengono codificati dalla stessa coppia di basi in 1a e 2a posizione. E sono:
 (Phe, Leu) – UU∙,         (Ileu, Met) –AU∙,        (His, Gln) – CA∙,          (Asn, Lys) –AA∙,     
 (Asp, Glu) – GA∙,      (Cys, Trp) –UG∙,       (Ser, Arg) –AG∙,          (Tyr, t) –UA∙, con t segnale di termine.
Di questi i quattro a nostra disposizione:
Due amminoacidi, Phe e Leu, presentano lo stesso potenziale specifico 9,50;
E altri due, Ileu e Met, presentano lo stesso potenziale specifico 9,30.
3) Inoltre due coppie di basi UU∙ e CU∙ codificano la Leu, la Leu presenta due potenziali specifici, 9,50 e 8,10.
Riportiamo il Grafico già esposto nel post n. 19 “origine delle proteine: parte terza” che riporta i potenziali specifici degli amminoacidi a nostra disposizione:
  

È evidente una corrispondenza tra la coppia di basi in 1a e 2a posizione della tripletta e il potenziale specifico degli amminoacidi.
Una sola coppia di basi riconosce un amminoacido: un solo potenziale per un amminoacido.
Una sola coppia di basi riconosce due amminoacidi: un solo potenziale per i due amminoacidi.
Due coppie di basi riconoscono un amminoacido: due potenziali per tale amminoacido.
Tale corrispondenza è reciproca nel senso che: i potenziali generati dai doppi strati elettrici confermano la centralità delle basi in 1a e 2a posizione, ma la centralità di tali basi conferma il suo collegamento con i doppi strati elettrici. Ma allora, la centralità di tali basi deve risultare della stessa natura, cioè di tipo elettrochimico, altrimenti ci ritroviamo a confrontare nuovamente proprietà degli amminoacidi con lettere dell’alfabeto. C’è quindi un indizio di un’affinità stereochimica, che potrebbe essere la traccia di un rudimentale meccanismo di sintesi delle proteine che, “fossilizzata”, dall’epoca prebiotica è giunta fino a noi.
Ma come possiamo spiegare tale affinità stereochimica?
Abbiamo già detto che il quarzo a contatto con una soluzione dà origine, sulla sua superfice, a un doppio strato elettrico che ci ha permesso di conoscere i potenziali specifici. Tale meccanismo lo abbiamo infine esteso anche alla silice colloidale. E allora, ricordando che non esistono proprietà delle basi ma del trinucleotide, estendiamo tali concetti ad una molecola di RNA in epoca prebiotica.
L’RNA e una grande molecola che a contatto con una soluzione dà origine, sulla sua superficie, a doppi strati elettrici. Ogni trinucleotide, rappresentato infine da una tripletta, ha la proprietà di generare un suo campo elettrico specifico. All’interno di tale campo elettrico le linee di forza devono avere un andamento elicoidale determinate dalla presenza della forma Destro del Ribosio, cioè dal D-Ribosio, e sono paragonabili al foro di una vite. Se il potenziale di tale campo elettrico è specifico per un amminoacido, quest’ultimo, a struttura sinistrorsa, il cui campo elettrico presenta un dipolo molecolare assimilabile ad una vite, lo riconosce, ed essendo ad esso complementare si attacca alla trinucleotide abbassando l’energia del sistema.
All’interno di questo doppio strato elettrico, come abbiamo ampiamente illustrato nell’articolo precedente, (L’origine delle proteine: la sintesi dei polipeptidi), gli amminoacidi, trascinati dalla “freccia del tempo”, hanno trovato le condizioni necessarie per la loro sintesi in proteine.   Esisterebbe quindi una legge di corrispondenza tra trinucleotide e amminoacido specifico, un sistema chimico-fisico di riconoscimento e complementarietà. Questo tipo di riconoscimento elettrochimico diretto, rappresentato con 3:1 una tripletta un amminoacido, potrebbe aver funzionato in epoca prebiotica. Esso si è traferito, attraverso processi evolutivi, nell’attuale meccanismo, molto elaborato, che comporta la partecipazione di RNA di trasporto, ribosomi ed enzimi.
È probabile che ogni trinucleotide, rappresentato dal codice 3:1, ha la proprietà, che lo distingue dagli altri codici, di delimitare un proprio campo elettrico ad andamento elicoidale paragonabile al foro di una vite. Tale campo elettrico è fissato principalmente dai nucleotidi che espongono le basi in 1a e 2a posizione, con la 2a posizione dominante, e in misura minore dal nucleotide che espone la base in 3a posizione. Questo significa che non è possibile prendere una parte di un trinucleotide e un’altra parte di un trinucleotide adiacente per costituire un nuovo trinucleotide e codificare un nuovo amminoacido. Il campo elettrico di un trinucleotide non è saltabile.
Da queste considerazioni risulta che la terza base non ha avuto veramente la funzione di spaziatura come suggerito da Ageno. Come abbiamo sopra esposto, le quattro triplette con le prime due lettere UU codificano la Leu e Phe mentre la terza base li distingue. Analogamente le quattro triplette che iniziano con AU codificano Ileu e Met mentre la terza base li distingue. Alcune ricerche, come abbiamo già illustrato, hanno evidenziato un ruolo minore della terza base nel codice genetico. Probabilmente il nucleotide che contiene la terza base completa e perfeziona il campo elettrico del trinucleotide, ma il suo contributo al potenziale è debole e l’apparecchio per la misura dei potenziali non è riuscito a rilevare.
Ora, è possibile che l’ipotesi sopra esposta abbia lasciato delle tracce cristallizzate nelle attuali strutture molecolari dell’mRNA e delle proteine, tracce provenienti da quel lontano passato?
Esistono dati certi che possiamo prendere come indizi per avvalorare questa ipotesi?
Dobbiamo partire da una premessa: se un amminoacido riconosce un trinucleotide nella molecola dell’mRNA, un trinucleotide riconosce un amminoacido nella struttura dell’ꭤ-Elica delle proteine.
1° Indizio.
Come abbiamo evidenziato in articoli precedenti, la silice colloidale ruota il piano della luce polarizzata e sembra dare origine a strutture del tipo quarzo Levo. Ma le strutture del Quarzo levo, all’analisi dei raggi X, sono risultate eliche Destrorse e quindi, anche le strutture della silice colloidale devono essere eliche Destrorse. Inoltre abbiamo ipotizzato altrove che la silice colloidale ha trattenuto sulla sua superficie gli amminoacidi Levo dove si possono sintetizzare i polipeptidi. Ma se la silice colloidale presenta eliche Destrorse anche i polipeptidi formati sulla sua superfice devono essere Destrorse. E
infatti una delle strutture secondarie delle proteine è l’ꭤ-Elica Destrorsa.     
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Ora, se un trinucleotide riconosce un amminoacido dell’ꭤ-Elica Destrorsa e immaginiamo che su di essa si è sintetizzato un RNA, anche quest’ultimo deve essere Destrorso. E infatti l’RNA è un’elica Destrorsa. Questa analogia potrebbe suggerire che l’RNA                                
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è Destrorso perché ha utilizzato come stampo l’ꭤ-Elica Destrorsa, la quale è Destrorsa perché ha utilizzato come stampo la silice colloidale Destrorsa. L’andamento Destrorso di queste molecole potrebbe rappresentare una prima traccia cristallizzata nelle loro strutture, un indizio di un loro lontano legame.
Un famoso detective avrebbe detto: il primo indizio è solo un caso.

2° Indizio.
Ma esiste qualche riscontro per ipotizzare che, in epoca prebiotica, l’RNA ha utilizzato l’ꭤ-Elica Destrorsa come stampo?
La struttura elicoidale delle proteine, l’ꭤ-Elica Destrorsa, è una struttura periodica, costituita da amminoacidi, che dopo un giro torna sulla retta della sua posizione iniziale. Ogni giro d’elica comprende 3,6 amminoacidi. Per riconoscere 3,6 amminoacidi necessitano 3,6 Trinucleotidi. Ogni trinucleotide è formato da tre nucleotidi, quindi 3,6x3=11. Per riconoscere i 3,6 amminoacidi di un giro dell’ꭤ-Elica ci vogliono 11 nucleotidi.
La struttura elicoidale dell’RNA è anch’essa una struttura periodica, costituita da nucleotidi, che dopo un giro torna sulla retta della sua posizione iniziale. E quanti nucleotidi comprende un giro d’elica dell’RNA? 11 nucleotidi, cioè 3,6 trinucleotidi che servono a riconoscere 3,6 amminoacidi.
Forse è più efficace una illustrazione geometrica. Se proiettiamo su un piano un giro d’elica dell’ꭤ-Elica otteniamo un cerchio. Dividendo l’angolo giro per il numero degli amminoacidi per ogni giro d’elica avremo, 360°:3,6=100°.
 Ogni molecola di amminoacido copre un arco di cerchio di 100° dove sono racchiuse le proprietà dell’amminoacido.
Se proiettiamo su un piano un giro d’elica dell’RNA otteniamo un cerchio. Un giro d’elica dell’RNA contiene 11 nucleotidi, cioè 3,6 trinucleotidi. Dividendo l’angolo giro per il numero dei trinucleotidi per ogni giro d’elica avremo, 360°:3,6=100°. Ogni trinucleotide copre un arco di cerchio di 100° dove sono racchiuse le proprietà del trinucleotide come entità a sé.
Quindi, 3,6 Amminoacidi e 3,6 trinucleotidi ciascuno nella propria elica coprono un arco di cerchio uguale, 100°; questa uguaglianza si può ascrivere ancora al caso?
Ma il nostro famoso detective avrebbe aggiunto: il secondo indizio è solo coincidenza.
3° Indizio
Tutti gli amminoacidi contengono un atomo di carbonio cui sono legati un atomo di H, un gruppo NH2, un gruppo carbossilico –COOH e una catena laterale R. A distinguere un amminoacido dall’altro è proprio questa catena laterale R. L’ꭤ-Elica è una struttura stabilizzata da legami idrogeno che la compattano, e al suo interno non c’è spazio libero. Tutte le catene laterali R, che distinguono l’amminoacido, sono disposti all’esterno dell’elica cioè nella parte convessa (vedi immagine ꭤ-Elica).
La struttura elicoidale dell’RNA è anch’essa stabilizzata da legami idrogeno tra le basi azotate. Nell’elica dell’RNA le basi stanno però all’interno dell’elica, cioè nella parte concava (vedi immagine elica RNA). Questo vuol dire che l’arco di cerchio dell’RNA, che contiene nella parte concava il trinucleotide e quindi la tripletta, si può sovrapporre all’arco di cerchio dell’ꭤ-Elica che, nella parte convessa, contiene l’amminoacido. Trinucleotide e amminoacido si trovano, quindi, nelle condizioni geometriche di interagire, le due eliche si possono sovrapporre.
E cosa avrebbe detto il nostro detective in merito al terzo indizio? A voi la risposta.
4° Indizio.
Immaginiamo un arco di cerchio di 100° dell’RNA che contiene, nella parte concava, un trinucleotide.
Avviciniamo questo arco alla parte convessa di un arco di cerchio di 100° dell’ꭤ-Elica che contiene la catena laterale dell’amminoacido. Trinucleotide e amminoacido possono interagire ma i loro atomi non si possono toccare, anzi stanno ad una distanza mediamente di circa 4 Å (angstrom). Ma allora, il raggio (in rosso) che sottende l’arco di cerchio di 100° dell’RNA deve essere necessariamente
maggiore del raggio (in nero) dell’arco di cerchio di 100° dell’ꭤ-Elica. E così è: il raggio dell’elica dell’RNA è di circa 10 Å mentre il raggio dell’ꭤ-Elica risulta circa 6 Å. Questo significa che l’elica dell’RNA si può avvolgere all’ꭤ-Elica facendo corrispondere ogni trinucleotide ad un amminoacido.
Mentre al nostro detective sarebbero bastate tre indizi noi ne abbiamo fornito un quarto.
La teoria sopra esposta evidenzia una correlazione tra dati sperimentali, struttura del codice genetico e struttura molecolare di proteine e RNA.
In chimico-fisica si definisce fase una porzione omogenea di materia limitata da superfici di separazione definite. Così per esempio: ghiaccio in acqua, particelle di grasso nel latte, sabbia in acqua sono costituite da due fasi, solida e liquida; sono cioè sistemi bifasici.
Le soluzioni colloidali sono costituite da un fase liquida in cui sono disperse particelle le cui dimensioni variano da 10 Å a 1000 Å. Esse sono caratterizzate da una notevole superficie e sono quindi sistemi bifasici. Le macromolecole fondamentali della vita, proteine, acidi nucleici ecc., rientrano nelle caratteristiche dei colloidi e quindi, in soluzione, anch’esse danno origine a sistemi bifasici.
Già H. v. Helmholtz, nel 1879, aveva proposto che alla superficie di separazione tra due fasi si forma sempre un doppio strato elettrico. I fenomeni che si osservano per effetto della presenza del doppio strato elettrico furono chiamati, a quell’epoca, effetti elettrocinetici. Poiché la teoria sopra esposta si fonda sulle proprietà del doppio strato elettrico alla superficie delle suddette macromolecole possiamo denominare tale teoria: Origine elettrocinetica del codice genetico.   
L’origine elettrocinetica del codice genetico postula una interazione chimico-fisica diretta tra amminoacidi dell’ꭤ-Elica e trinucleotidi, e tra amminoacidi e trinucleotidi dell’mRNA. Essa rappresenta un meccanismo di traduzione primitivo che collega il codice genetico ai principi della fisica e della biologia ed è attraverso tali principi che si spiega l’universalità del codice genetico.


                                                                                                                       Giovanni Occhipinti

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