domenica 29 settembre 2013

CHARLES DARWIN, NOI E L'ORIGINE DELLA VITA



Post n.13
Alla ricerca del significato della vita, Paul Davies nel saggio, “Da dove viene la vita” 2000, argomenta: «Com’è ovvio, l’evoluzione darwiniana può operare solo se la vita esiste già in qualche forma (in senso stretto, non è necessaria la vita in tutto il suo splendore, ma solo la duplicazione, la variazione e la selezione). Il darwinismo non può offrire alcun aiuto per spiegare quel primo passo cruciale: l’origine della vita. Ma se la teoria centrale della vita non è in grado di spiegarne l’origine, siamo di fronte ad un serio problema».
Dunque secondo Davies abbiamo un problema. Ma il problema di chi è?
Ora, la teoria di Darwin nelle sue linee essenziali si basa su tre fatti fondamentali:
1)    Nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere.
2)    Gli individui non sono tutti uguali ma presentano delle variazioni casuali (nel senso di non finalizzate).
3)    La selezione naturale: sopravvive l’individuo che presenta la variazione più adatta in un determinato ambiente.
In riferimento alle teorie sull’origine della vita, Paul Davies aggiunge (opera citata): «Tutte le teorie hanno in comune una medesima idea: una volta che la vita è nata, in qualunque forma, il resto è venuto da sé, perché l’evoluzione darwiniana ha potuto prendere il via. Quindi è naturale che gli scienziati cerchino di ricorrere al darwinismo a partire dalla primissima fase della storia della vita: con il suo ingresso in campo, sono possibili enormi miglioramenti sospinti solo dalla forza trainante del caso e della selezione».
I tentativi di legare una teoria dell’origine della vita con il darwinismo hanno riguardato, essenzialmente i punti due e tre, cioè: il caso e la selezione naturale. Questi tentativi, come abbiamo visto in precedenti articoli, sono miseramente falliti.
Il caso è diventato un mito, o per utilizzare l’espressione di Paul Davies “la parola magica”, che gli scienziati utilizzano per ripararsi sotto la coperta di Darwin.
La selezione naturale estesa anche alle molecole fu il tentativo, fallito, dei sostenitori del “Mondo a RNA” di estendere l’evoluzione darwiniana all’origine della vita.
Per chiudere la questione rimane da esaminare il primo fatto fondamentale:
Nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere.
È possibile che ci sia almeno un collegamento tra questo fatto fondamentale della teoria di Darwin e l’origine della vita?
Nell’esaminare la struttura della teoria darwiniana Mario Ageno in “Le radici della biologia”,1986, afferma: «Possiamo a questo punto concludere la nostra breve analisi critica di alcuni concetti fondamentali della teoria darwiniana. Da essa sono emerse alcune smagliature della ordinaria impostazione della teoria, che possiamo riassumere nel modo seguente: «[…].La teoria prende atto, senza cercare in alcun modo di giustificare,  dell’esistenza, per ogni popolazione vivente, di un largo eccesso di capacità riproduttiva, che costituisce la “forza motrice” di ogni processo evolutivo.[…]».
Quindi, Darwin non dà nessuna giustificazione alla “forza motrice” della sua teoria.
La questione viene sollevata anche da S. J. Gould ed Elisabeth S. Vrba in “Exaptation” 2008, quando affermano: «Nella teoria darwiniana, il cambiamento evolutivo è il prodotto del successo differenziale, cioè dei tassi differenti di natalità e di mortalità fra gli organismi che variano all’interno di una popolazione. Come tale, è una semplice descrizione di rappresentazioni differenziali in una popolazione: in se non contiene alcuna affermazione riguardante le cause del fenomeno».
Ernst Mayr in “L’unicità della biologia”, 2005, dopo aver evidenziato che la biologia si compone di due settori cioè la biologia meccanicista (o funzionale) e la biologia storica o evolutiva, afferma: «Tuttavia, nella biologia funzionale la domanda che più spesso viene posta è “in che modo”, mentre nella biologia evolutiva la domanda più frequente è “perché”».
E allora, nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere. Perché?
Niles Eldredge nel saggio “Ripensare Darwin”,2008, dopo aver evidenziato che ad ogni generazione, nascono più organismi di quanti ne possano sopravvivere e riprodursi ricorda quanto scrisse George Williams in “Adaptation and natural selection”, 1966: «La selezione, nel giudizio di Williams, non se ne intende di futuro – non ha modo di riconoscere che cosa potrebbe essere vantaggioso per la sopravvivenza della specie».
Maynard Smith in “La teoria dell’evoluzione” 1976, non sembra condividere questo parere ma non affronta direttamente la questione. Egli riporta però un  
it.wikipedia.org
lavoro di Lack sul numero delle uova deposto dalle aringhe (migliaia) e da altri pesci e  conclude: «Si potrebbe concludere che, in vista di un’alta mortalità larvale, è necessario che l’aringa deponga un gran numero di uova se la specie deve sopravvivere. Questo è abbastanza vero […]».
Sulla stessa linea è anche Mario Ageno quando afferma (opera citata): «Il primo fatto che vogliamo richiamare è l’eccesso di potenziale riproduttivo che ogni tipo di organismo presenta. È chiaro che (tenendo anche conto della inevitabile insorgenza di incidenti occasionali che si risolvono nella eliminazione di esemplari della popolazione), ogni popolazione per non estinguersi deve essere in grado di generare un numero di figli per genitore in media sensibilmente maggiore di uno».
S. J. Gould ed Elisabeth Vrba hanno sì  sollevato la questione ma non hanno espresso nessuna opinione.
Anche Niles Eldredge non chiarisce bene la sua opinione sulla questione. Però egli, in “Ripensare Darwin” 2008, riporta ancora quanto scrive George Williams (a suo parere tra i difensori più rigidi della tradizione darwiniana): «Williams, continuando a ripetere che la selezione non può “prevedere” il futuro, ne concluse- non irragionevolmente- che non è possibile che gli organismi si riproducano con lo scopo di perpetuare la popolazione o la specie di cui fanno parte. La selezione naturale non può sapere in alcun modo che cosa vi è in serbo per una specie man mano che il tempo passa». Eldredge condivide quindi il pensiero di Williams ma non condivide le conclusioni quando Williams scrive: “scopo della riproduzione di un individuo è […] massimizzare la rappresentazione del materiale ereditario delle proprie cellule germinali, relativamente  a quello di altri membri della stessa popolazione».
Dunque, riepilogando, perché nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere?
Darwin non dà nessuna giustificazione, Williams afferma che l’evoluzione non può conoscere il futuro, Maynard Smith e Mario Ageno pensano che sia per la sopravvivenza della specie, Niles Eldredge li smentisce condividendo l’affermazione di Williams che la selezione non può prevedere il futuro, S. J. Gould ed Elisabeth Vrba non si pronunciano e altri evoluzionisti si sono tenuti alla larga.
Per concludere, la questione rimane irrisolta.
In riferimento a più generali problemi, (opera citata), Eldredge scrive: «Concordo con George Williams quando afferma che i problemi scientifici non vengono tanto risolti quanto tranquillamente abbandonati a favore di qualche nuovo insieme di questioni che sopraggiungono ad assorbire l’interesse di una disciplina».
Qui sembra proprio di essere in presenza di un problema abbandonato. Ma le cose abbandonate appartengono a tutti e noi sulla questione avremmo qualcosa da dire. Filosofi e teologi questa volta debbono pazientare.
Premesso che l’evoluzione non è finalizzata,  non ha scopi.
Allora, perché nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere?
In realtà, prima di porsi la domanda del “perché” di questo fatto fondamentale della teoria di Darwin, bisogna innanzitutto chiedersi: perché gli animali fanno figli? Perché tutti gli organismi viventi danno origine a discendenti? Perché nascono gli individui? Solo dopo ci si può chiedere: perché nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere?  
E allora, perché tutti gli organismi viventi danno origine a discendenti?
Perché nascono gli individui?
È qualcosa che è innata, è un istinto. Per gli organismi viventi dare origine ad una discendenza è un istinto contenuto, dalle origini, nella loro  struttura biochimica. Deve


essere necessariamente così. Se questo istinto non fosse contenuto nella struttura biochimica originaria, una specie durante la sua evoluzione, potrebbe, per “esercitare un risparmio”, non dare origine a prole ed estinguersi. E invece gli organismi viventi danno origine a prole, nelle condizioni più avverse, a scapito di un “risparmio personale”, e spesso a spese della propria vita. È ovvio che all'interno della specie alcuni organismi viventi possono non dare origine a prole, ma è la specie nel suo insieme che garantisce la sopravvivenza. L’istinto a dare origine ad una prole deve necessariamente risalire alle prime cellule e quindi all'origine della vita. Se le prime cellule non avessero dato origine ad una discendenza, la vita non sarebbe apparsa.  La discendenza appare con l’origine della vita e quindi non può essere stato un processo darwiniano; l’evoluzione inizia con la discendenza, ma essa c’era già.

Dunque è chiaro che non si tratta dello stesso “Istinto” di cui discute Darwin nel capitolo 7, come egli stesso afferma: «Debbo premettere che non mi occupo dell’origine delle prime facoltà psichiche, più di quanto non mi curi della vita in se stessa. Qui ci interessano solo le differenze degli istinti e di altre facoltà psichiche degli animali di una stessa classe. Non cercherò di definire l’istinto».
E allora, l’istinto a dare origine ad una prole, come lo si potrebbe definire?
Dunque, sono comparse le prime cellule.
Alcune sicuramente non erano in grado di dare origine ad una discendenza e si son estinte.
Alcune cellule hanno dato origine ad una discendenza, ma allora origine della vita e istinto a dare una prole sono contemporanee, comparsa la prole compare le vita. Insomma, non esiste un istinto a dare origine discendenti separato dall'origine della vita, come qualcosa che è venuto dopo. Origine della vita e prole sono il prodotto, senza soluzione di continuità. della stessa struttura biochimica. In definitiva, la struttura biochimica che ha dato origine alla vita, non ha smesso, continua a dare origine alla vita: la prole. 
E perché nascono più individui di quanto ne possano sopravvivere?
È qualcosa che è innata, è un istinto.
Quattro miliardi di anni fa la giovane terra era ancora martoriata da impatti cometari, eruzioni vulcaniche ed era inospitale. Se la vita avesse avuto origine una sola volta con una singola cellula, essa difficilmente avrebbe potuto superare le innumerevoli vicissitudini cui sarebbe stata sottoposta. La vita deve aver avuto più origini. E già allora, con errori di riproduzione e presenza di predatori, deve essersi  instaurata una dura lotta per l’esistenza e una competizione per accaparrarsi le nicchie disponibili. Per sopravvivere, nella quotidianità, bisognava essere in tanti. Perciò, sottoposti alla selezione naturale, solo gli organismi che hanno dato origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere hanno vinto la lotta per l’esistenza. Ma allora dare origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere, che per brevità possiamo definire istinto per l’esistenza, era già contenuto nella struttura biochimica degli organismi che hanno vinto la  lotta per l’esistenza. Gli organismi sono stati sì sottoposti alla selezione naturale, ma non c’è stato nessun processo darwiniano.  L’istinto per l’esistenza è stato sì plasmato dall’evoluzione, ma c’era già, era contenuto nella struttura biochimica originaria, tant’è che è presente in tutti gli organismi viventi fin dall’origine della vita. Insomma, non esiste un istinto a dare origine a più discendenti di quanti ne possano sopravvivere separato dall’origine della vita, come qualcosa che è venuto dopo.   Origine della vita, dare origine a individui, e dare origine a più individui di quanti ne possano sopravvivere sono il prodotto, senza soluzione di continuità, della stessa struttura biochimica. In definitiva, la struttura biochimica che ha dato origine alla vita, non ha smesso, continua a dare origine alla vita: la prole, e più prole di quanti ne possano sopravvivere.
Non c’è stato nessun processo evolutivo, Darwin viene dopo.
Il darwinismo, come scrive Paul Davies, non può offrire alcun aiuto per spiegare quel primo passo cruciale: l’origine della vita.
Risulta però che il termine “origine della vita” deve necessariamente includere : origine delle prime cellule, adatte a dare origine a prole e a dare più prole di quanti ne possano sopravvivere. La struttura biochimica di un tale insieme deve essere stata quindi una struttura molto complessa.
Ancora secondo Davies: se la teoria centrale della vita non è in grado di spiegarne l’origine, siamo di fronte ad un serio problema.
Ma il problema di chi è?
Non certo di Darwin i cui fatti fondamentali della sua teoria sono stati ampiamente dimostrati. Ma se non è di Darwin allora il problema è nostro, anzi, il problema siamo noi.
Siamo bloccati all’interno di due camicie di forze da cui non riusciamo a liberarci; da un lato l’ostinazione a non volere ammettere, malgrado sia stato ampiamente dimostrato, che non c’è nessun collegamento tra il darwinismo e l’origine della vita. E si continua stancamente a riproporre o un evento casuale o il “Mondo a RNA. Dall’altro lato,  i tentativi di una spiegazione chimico-fisica, nella ricerca di leggi della complessità e auto riproduttivi che probabilmente non esistono. Partendo dalle sostanze semplici note, noi possiamo forse riuscire a spiegare l’origine delle proteine, l’origine dell’acido nucleico, fino a comprendere la formazione di un sistema complesso. Noi però ci aspettiamo che il sistema complesso presenti delle proprietà cui possiamo associare delle leggi; e invece il sistema complesso ci presenta dei concetti.
E allora, se vogliamo cercare di capire come ha avuto origine la vita dobbiamo liberarci da queste camicie di forza.
È ormai abbastanza diffuso tra gli scienziati l’opinione che la cellula non è un complesso sistema di riproduzione meccanico.
Secondo Edoardo Boncinelli, “La scienza non ha bisogno di Dio” 2010, degli esseri viventi ci colpisce  soprattutto il movimento: «Molti di tali movimenti sono finalizzati a raggiungere uno scopo. Infatti un’altra caratteristica tipica della maggior parte dei viventi è proprio l’intenzione: essi ci paiono di voler fare qualcosa e adoperarsi per compierla. […]: l’intenzione compare sulla terra con la vita così come con molti dei suoi moti interni è comparsa la funzione». E più avanti precisa: «Per avere un’intenzione occorre possedere un sistema nervoso centrale, seppur elementare, mentre per avere una funzione questo non è assolutamente indispensabile».
Il neuro scienziato  Antonio Damasio in “Il Sé viene alla mente” 2012, va oltre la necessità di un sistema nervoso centrale. Egli definisce  innanzitutto l’omeostasi, presente in tutti gli organismi viventi, come tutte le operazioni di gestione per procurarsi le fonti di energia, incorporarli, trasformarli ed eliminare le scorie. Essa mira a mantenere i parametri chimici dell’organismo (il milieu interno) entro quell’intervallo magico compatibile con la vita. Damasio evidenzia come 
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la vita sia comparsa 3,8 miliardi di anni e che i batteri, con le loro cellule semplici e non nucleate, furono i dominatori incontratati del pianeta ; soltanto dopo due miliardi di anni comparvero, per endosimbiosi, le cellule eucariote, cioè cellule dotate di nucleo . Mentre i batteri necessitano di vivere in colonie, le cellule eucariote, che costituiscono anche gli organismi pluricellulare, possono sopravvivere anche individualmente. In riferimento alla cellula eucariote egli argomenta: «Per semplici che fossero e siano tutt’ora, le singole cellule avevano quella che sembrava una ferma e incrollabile determinazione a restare vive fintanto che i geni all’interno del loro microscopico nucleo ordinavano di farlo. Il governo della loro vita comprendeva una testarda insistenza a persistere, resistere e prevalere fino a quando alcuni geni presenti nel nucleo non avessero sospeso la volontà di vivere, permettendo loro di morire.
È difficile –lo so- immaginare che i concetti di desiderio e volontà siano applicabili a una singola cellula solitaria. Come è possibile che atteggiamenti e intenzioni –che noi associamo alla mente umana e intuiamo  essere il risultato dei meccanismi del grande cervello umano- siano presenti a livello così elementare? Eppure, quegli aspetti specifici del comportamento cellulare sono presenti -sono lì-comunque si decida di chiamarli.
La singola cellula –priva com’è di conoscenza cosciente e di accesso ai sofisticati dispositivi di scelta disponibili invece nel nostro cervello- sembra esprimere un atteggiamento: vuole vivere fino in fondo la vita prescritta dai suoi geni. La volontà e tutto quanto è necessario per realizzarla precede la conoscenza esplicita delle condizioni di vita, sia la riflessione relative a esse, giacché la singola cellula non possiede né l’una né l’altra. Istante per istante, il nucleo e il citoplasma, affrontano i problemi posti dalle condizioni di vita e adattano la cellula alla situazione contingente, in modo che essa possa sopravvivere. A seconda delle condizioni ambientali, ridispongono e ridistribuiscono le molecole al loro interno e modificano la forma di sotto componenti dando prova di una precisione sbalorditiva».
Ora, l’origine della vita deve essere stata sicuramente un’emergenza. Emergenza la si deve intendere nel significato dato da Ernst Mayr (opera citata): «La comparsa di caratteristiche impreviste in sistemi complessi». «Essa non racchiude nessuna implicazione di tipo metafisica». «Spesso nei sistemi complessi compaiono proprietà che non sono evidenti (né si possono prevedere) neppure conoscendo le singole componenti di questi sistemi».
In realtà questo è vero anche per i sistemi semplici. L’acqua è costituita da Idrogeno e Ossigeno. Conoscendo le proprietà di questi due gas nessuno può prevedere le proprietà dell’acqua. E questo è vero per tutti i composti chimici. Solo che alle proprietà dei sistemi semplici e alle loro trasformazioni siamo riusciti ad associare delle leggi. Per contro i sistemi complessi che conducono alla vita non presentano proprietà specifiche ma comunicano per concetti.
Però non è possibile la formazione, in una sola volta, di un unico sistema così complesso: cioè una struttura biochimica che racchiude in sé l’origine della vita (cioè origine delle prime cellule capaci di dare origine alla prole e dare più prole di quanti ne possano sopravvivere). Se emergenza è stata, essa doveva consistere di diverse soglie, come una scala ad ogni gradino una nuova soglia, ad ogni soglia una struttura biochimica leggermente diversa e un po’ più complessa.
Se la singola cellula eucariote esprime intenzionalità, quale concetto esprime la cellula batterica e quale concetto esprime la prima struttura biochimica per aver spinto l’ emergenza a salire la scala della vita?
Quando, partendo da dati e fatti e procedendo verso una teoria possibile dell’origine della vita, incontreremo sistemi per i quali le leggi della chimica non ci  sono più di nessun aiuto, ecco lì forse ha origine l’emergenza. Quello, forse, è il primo gradino dove inizia la vita e  dove  la chimica diventa biologia.

                                                                                       Giovanni Occhipinti

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